Un tripudio di “napoletanità” ha incorniciato il verdetto dell’82ma Mostra d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. Il Festival Cinematografico dalla “più lunga denominazione della storia” come ha sottolineato l’attrice Emanuela Fanelli, spiritosa e sciolta presentatrice ufficiale dell’edizione 2025, ha, così, concluso dieci giornate dedicate alla Settima Arte mai apparsa tanto in forma e densa di titoli pregevoli presentati in un concorso altamente competitivo e, ne siamo certi, viatico per inaugurare un’Award Season di cui saranno protagoniste molte delle opere passate in Laguna.
L’orgoglio di bandiera ci fa, senza dubbio, cominciare dalla Coppa Volpi per il miglior attore, andata, finalmente, in direzione del campano (afragolese di nascita e casertano d’adozione) Toni Servillo, interprete “feticcio” del partenopeo Paolo Sorrentino, ritornato con “La Grazia” ai fasti critici già, ampiamente, meritati in passato. Nel ruolo di un Presidente della Repubblica, ex giurista, nel suo “semestre bianco” alle prese con problemi di coscienza relativi alla concessione della “grazia” a due ergastolani e alla decisione di autorizzare l’eutanasia, Servillo dà il meglio della sua capacità performativa, regalando al personaggio complessità e profondità. Una Napoli, fotografata in splendido bianco e nero, affascinate e misteriosa viene rivelata dal regista romano Gianfranco Rosi, che, grazie al suo appassionato affresco documentario “Sotto le nuvole” a cui ha lavorato per ben tre anni, ha agguantato un dovuto Premio Speciale della Giuria internazionale, capitanata dal cineasta statunitense Alexander Payne, coadiuvato, tra gli altri, dalla nostra Maura Delpero.
Il Leone d’Oro, massimo riconoscimento della rassegna, è finito, un po’ a sorpresa soprattutto dell’interessato, nelle mani dell’americano Jim Jarmush, amico fraterno di Roberto Benigni con il quale ha lavorato nel mitico “Daunbailò”, che con “Father Mother Sister Brother” indaga problematici rapporti familiari in un lungometraggio a episodi supportato da un cast di stelle di prima grandezza. Miglior attrice della kermesse, la cinese Xin Zhilei per “The Sun Rises on us all”, ragazza dall’irrefrenabile loquacità evidenziata in occasione del ritiro della Coppa, mentre molto divertita (e divertente) è apparsa la francese Valerie Donzelli nell’accettare il trofeo alla sceneggiatura, composta a quattro mani con il collega Gilles Marchand, per il suo “A pied d’oeuvre”.
Tutto “yankee” è stato anche il Leone d’Argento per la regia, consegnato al talentuoso Benny Safdie, che in “The Smashing Machine” ha “riciclato” un Dwayne Johnson, meglio noto come “The Rock”, in grande spolvero. Infine, l’alloro, simbolicamente, più significativo, ovvero il Gran Premio dei Giurati, è stato donato alla decisa grazia narrativa della tunisina Kaouther Ben Hania, che con l’acclamato (23 minuti di applausi alla proiezione in Sala Grande) “The Voice of Hind Rajab”, per i più il vero legittimo destinatario del massimo riconoscimento purtroppo non giunto, ha dato drammatica e urlante “voce” al dramma dei tanti, troppi bambini (e civili) palestinesi sacrificati dalla brutalità umana, ai quali, durante il corso del Festival, e, anche, dal palco delle premiazioni, tutti hanno fornito incrollabile, immancabile e compassionevole sostegno.