Saronno, sottraevano attrezzature terapie intensive per rivenderle: 2 arresti

di Redazione

In piena emergenza coronavirus, quando le attrezzature mediche necessarie a intubare i pazienti scarseggiavano, loro le sottraevano all’ospedale di Saronno, in provincia di Varese, per rimetterle sul mercato e dividersi i profitti. Acquisti a carico della sanità pubblica che poi venivano rivenduti gonfiando i prezzi, vista la scarsità nelle terapie intensive: “Dai, che ci facciamo un bel regalo, ci compriamo la borsa di Prada”.

Sara Veneziano, farmacista di 59 anni, con un ruolo dirigenziale nella struttura, e Andrea Arnaboldi, imprenditore 49enne di Barlassina (Monza Brianza), sono stati arrestati questa mattina: per entrambi l’accusa è di peculato in concorso, l’uomo dovrà rispondere anche di autoriciclaggio. Il gip di Busto Arsizio, che ha coordinato l’inchiesta, li definisce “avidi e dotati di sconcertante cinismo”: l’emergenza sanitaria infatti non solo non aveva fermato un sistema già collaudato, ma anzi aveva offerto l’alibi ideale per gonfiare gli ordini e alzare i prezzi. “Mi dispiace per i pazienti, ma…” diceva la Veneziano al telefono, non sapendo di essere intercettata.

I carabinieri di Varese e la Guardia di Finanza di Saronno hanno cominciato a indagare lo scorso novembre, su segnalazione di un dirigente sanitario “responsabile delle farmacie ospedaliere dell’Asst Valle Olonche”, che aveva rilevato una serie di ordini anomali firmati dall’indagata. Grazie a intercettazioni e pedinamenti, le indagini avevano permesso di ricostruire la dinamica della compravendita: la dirigente Veneziano acquistava presidi medici per conto dell’ospedale – addebitandone quindi i costi all’ente pubblico – e poi li consegnava al suo complice. Poteva farlo in virtù della discrezionalità di cui godeva per via del suo incarico, che le consentiva di disporre liberamente dei fondi dell’Ospedale. Si trattava prevalentemente di lame e batterie per laringoscopio, indispensabili per intubare i malati: quando Veneziano non riusciva ad acquistarne in più, distraeva direttamente quelle in dotazione all’ospedale. “Mi dispiace per i pazienti, però..”, afferma la farmacista nelle intercettazioni. “Ha chiamato l’Anna (un’addetta, ndr) …ho detto: mi spiace, non ne ho“. E invece ne aveva, ma da destinare al mercato e non ai suoi pazienti. Non solo: nelle telefonate chiede insistentemente ad Arnaboldi di far pagare le pile per laringoscopi sottratte “250 euro l’una” vista la carenza, e quindi l’elevata richiesta. “Sì, sì dai – dice – una bella mangiata, un bel regalo, ci compriamo la borsa di Prada“. Secondo gli inquirenti, i due avevano una relazione.

Carabinieri e finanzieri spiegano infatti che le attrezzature mediche “non venivano deliberatamente consegnate ai reparti di anestesia che ne avevano necessità, per essere invece restituite al titolare dell’azienda fornitrice che le rivendicava lucrando indebiti profitti da spartire con la donna”. I dispositivi venivano imballati in “anonimi scatoloni” per farli uscire dall’ospedale e poi rivenduti dalla società dell’uomo con regolare fattura. Spesso proprio ad altri ospedali, del tutto ignari della provenienza. Gli inquirenti sottolineano la “spregiudicatezza degli arrestati” nel “perseverare delle condotte criminose durante la crisi sanitaria dovuta al Covid-19”. IN ALTO IL VIDEO

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