Agrigento, tornano in cella 10 boss scarcerati per vizio di forma

di Redazione

I carabinieri del comando provinciale di Agrigento hanno arrestato dieci capimafia delle cosche agrigentine e palermitane e notificato un obbligo di dimora a un undicesimo indagato. L’operazione è stata coordinata dalla Dda di Palermo. In manette sono finiti boss ed estorsori già arrestati a gennaio scorso nell’ambito del maxiblitz ‘Montagna’ e poi scarcerate dal tribunale del Riesame. I giudici della Libertà, nei mesi scorsi, avevano annullato per difetto di motivazione ben 13 misure cautelari sostenendo che il gip che aveva disposto i provvedimenti si fosse limitato a fare un copia e incolla della richiesta di arresto depositata dai pm Gery Ferrara, Claudio Camilleri e Alessia Sinatra. Una decisione, quella del Riesame, che aveva fatto tornare liberi mafiosi ed estortori. E per mesi vittime e carnefici si sono ritrovati faccia a faccia. La Procura di Palermo ha fatto ricorso contro la decisione del tribunale. La Cassazione, che si sta pronunciando in questi giorni, ha dato ragione ai pm e ha annullato con rinvio già 8 delle 13 scarcerazioni disposte dal Riesame.

Dopo il blitz Montagna, rompendo un muro di omertà storico, per la prima volta, decine di commercianti e imprenditori della provincia per anni vittime del racket, hanno iniziato a collaborare con gli inquirenti facendo nomi e cognomi degli esattori del pizzo. Un paradosso accaduto in una provincia che è stata teatro della più grossa operazione antimafia mai fatta nella zona. Cinquantasette arresti, con boss di prima grandezza finiti in cella insieme ad esattori del pizzo, gregari e prestanomi. L’hanno chiamata “operazione Montagna” perché a tappeto sono stati disarticolati i vertici di tutti i clan dell’area montana.

Cosche come quella di Raffadali, Aragona, Sant’Angelo Muxaro e San Biagio Platani, Santo Stefano di Quisquina, Bivona, Alessandria della Rocca, Cammarata e San Giovanni Gemini sono rimaste “orfane” dei loro capi, come Antonino Vizzì e Luigi Pullara, fino alle scarcerazioni disposte dal Riesame. Paradossalmente, invece, è rimasto in carcere Giuseppe Quaranta, ex capomafia di Favara che, dalla fine di gennaio, ha cominciato a collaborare con i magistrati. Le sue dichiarazioni e le ammissioni delle vittime del pizzo sono elementi nuovi usati dalla Procura per gli arresti di oggi.

L’indagine, coordinata dal Procuratore Francesco Lo Voi, racconta di una mafia che parla un linguaggio antico, perpetua organigrammi tradizionali, fa affari con la droga e le estorsioni e si vanta di esistere “fin dalla storia del mondo”. Ma non disdegna business nuovi. Ovunque ci siano fondi pubblici su cui mettere mano i clan accorrono. Dall’inchiesta è emerso, infatti, tra l’altro che il capomafia di Cammarata Calogerino Giambrone avrebbe cercato di infilarsi nella gestione di una coop, la San Francesco di Agrigento, che si occupa di accoglienza di migranti.

Queste le persone arrestate dai carabinieri del comando provinciale di Agrigento: Antonino Vizzì, 63 anni, ritenuto reggente della “famiglia” di Raffadali; Vincenzo Pellitteri, 66 anni, ritenuto reggente della “famiglia” di Chiusa Sclafani; Franco D’Ugo, 52 anni, del clan di Palazzo Adriano; Giovanni Gattuso, 62 anni, ritenuto reggente della “famiglia” di Castronovo di Sicilia; Vincenzo Cipolla, 56 anni, della cosca di San Biagio Platani; Raffaele La Rosa, 59 anni, ritenuto appartenente alla “famiglia” di San Biagio Platani; Raffaele Salvatore Fragapane, 40 anni, ritenuto appartenente alla “famiglia” di Santa Elisabetta; Luigi Pullara, 54 anni, ritenuto esponente di vertice della “famiglia” di Favara; Angelo Di Giovanni, 46 anni, ritenuto appartenente alla “famiglia” di Favara e Giuseppe Vella, 37 anni, della “famiglia” di Favara.

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