La libertà di scegliere chi essere e come vivere è costata la vita a Saman Abbas. Non fu un delitto d’impeto, ma una decisione pianificata con freddezza, maturata all’interno del “clan familiare” come punizione per un’autonomia considerata intollerabile. È quanto scrive la Corte di assise di appello di Bologna nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato all’ergastolo i genitori della 18enne pachistana e due cugini, mentre allo zio è stata inflitta una pena di 22 anni di carcere.
Una punizione per la libertà – Secondo i giudici, l’omicidio venne «programmato per un congruo lasso di tempo» ed eseguito con «fredda lucidità», in quanto la giovane aveva deciso di «vivere liberamente e in piena autonomia la propria vita», in aperta distonia con «i valori etici e il credo religioso» della famiglia. Un atto che la famiglia interpretò come una ribellione inaccettabile. Saman era scomparsa nella notte tra il 30 aprile e il 1 maggio 2021 da Novellara, in provincia di Reggio Emilia. Il suo corpo fu ritrovato oltre un anno dopo, il 19 novembre 2022, in un casolare abbandonato nei pressi dell’abitazione di famiglia. La conferma dell’identità arrivò solo il 4 gennaio 2023.
Il rifiuto del matrimonio forzato – Poco più che maggiorenne, Saman Abbas aveva respinto l’idea di un matrimonio combinato e sognava un futuro indipendente in Italia. Una scelta che i suoi familiari, secondo la Corte, ritennero «insopportabile». Da lì la decisione condivisa di eliminarla, maturata «dal clan familiare» come atto di repressione nei confronti di una figlia che aveva osato seguire la propria strada.