La questione campana

di Redazione

NapoliAl tempo in cui la parola aveva ancora un senso, ed un suono – faceva ancora un poco rumore, insomma – esisteva un vocabolo, in dialetto napoletano, che bene esprimeva il sentimento – fatto di mille sensazioni frullate tra loro – di chi si sente in un certo modo. In napoletano, questa parola era: sblut.

palazzo chigi

Da pronunciarsi, tecnicamente parlando, con una leggera esitazione tra la b e la l: come fosse sb-lut. Provando a tradurre in italiano questo vocabolo, lo si potrebbe tradurre:sfinito, e stremato, ed esausto. Ma non di chi ha lavorato tanto:di chi, più precisamente, non ce la fa proprio più perché sente montare, nello stomaco e ovunque, una strana rabbia mista a rassegnazione e impotenza. Sblut. Così. Se cammini per strada, qui a Napoli, e più precisamente nell’agro aversano – ma in tutte le zone flagellate drammaticamente dalla piaga dei rifiuti – puoi capire all’istante cosa questa parola voglia stare a significare. Anche se non si è mai stati qui: fuori un bar qualunque, per le strade, respirando un’ennesima boccata di sana diossina, e commentando quell’odore marcio fino al midollo, puoi vedere come le facce della gente fotografino splendidamente quel termine napoletano. Al tempo in cui la parola aveva ancora un senso, ed un suono – quando parlarne serviva ancora a qualcosa, insomma – la gente usava ancora quel termine, per far capire che ci si sentiva così. Dopo innumerevoli settimane, e mesi, che la situazione dei rifiuti non ha ancora avuto una risposta efficace, concreta, una risposta che affronti il problema andando a monte, la gente, qui, non dice più niente. Dice Roberto Saviano che chi è nato in queste terre porta con sé già una colpa:quella di esserci nato. Non importa cosa si fa. Non importa cosa si dice. Si è, di per sé, colpevoli. Saviano, per conto suo, si riferisce alle dinamiche di camorra: invasive al punto da far subire una pena anche se non si è commesso un reato preciso. La questione dei rifiuti esemplifica perfettamente, a mio avviso, l’idea di colpevolezza insita in ogni abitante della campania: a maggior ragione di chi vive nelle zone invase dai rifiuti. L’assurda e tentacolare ragnatela di cui, volenti o nolenti, si è parte costituisce un dispositivo micidiale di assoggettamento alla logica dominante: le cose stanno così e basta. Una vera e propria imposizione calata dall’alto da una mano che risulta, ormai, più invasiva di qualunque altro tipo di potere della modernità. La questione dei rifiuti risulta essere gravissima per motivi di principio, oltre che pratici. Vivere in zone in cui la criminalità è alta, in cui la camorra fa affari d’oro, sfruttando la capacità di insinuarsi nelle pieghe della società – essere qui, e altrove, e in nessun luogo contemporaneamente – è un compito ostico per tutti. I ragazzi, da queste parti, sembrano ormai rassegnati all’idea che si possa costruire veramente, qui, qualche cosa che sia sano. E questo, per il motivo che non esiste quasi più uno spazio sociale vaccinato contro il potere camorristico. Capace di essere qui, e altrove, e in nessun luogo contemporaneamente. Vivere in queste zone comporta una consapevolezza, che appartiene a tutti, di come certe dinamiche funzionino. Di come certe cose accadano. E si cerca – per chi vuole – un modo come un altro per non lasciarsi contagiare da un morbo letale: capace di esercitare il suo contagio anche senza un contatto diretto. Le migliaia di foto scattate al cellulare che immortalano montagne di spazzatura, insieme agli innumerevoli articoli che puntualmente escono sui giornali. Le centinaia di chiamate ogni notte ai vigili del fuoco, insieme alle migliaia di cassonetti puntualmente bruciati, e spenti, e ribruciati. Le nubi dense che emanano diossina che si levano al cielo, insieme al liquido cancerogeno che fuoriesce dai rifiuti. Le parole dette, sversate sulle nostre vite ormai sature di certi argomenti – proprio come le discariche chiuse, e riaperte, e chiuse ancora una volta. Tutto questo sta qui a testimoniare la drammaticità di una situazione capace di produrre malattia anche senza un contatto diretto. Frequentare posti più o meno tranquilli, evitare gente losca immischiata in certi contesti, prendere le dovute precauzioni, per taluni fenomeni, risulta essere un vaccino che si spera – si spera – possa essere utile a difenderci dal virus. Ma quando la malattia riesce a trasmettersi anche senza contatto diretto, le proprie capacità di difesa vengono mutilate da una semplice condizione: puoi essere infettato anche senza precauzioni. La questione dei rifiuti funziona proprio così. Poter morire di un qualcosa anche se non lo si è scelto. Morire di tumore – in zone in cui l’incidenza dei rifiuti, per lo sviluppo della malattia è altissima – anche se non si fa nulla. Respirare diossina, ogni sera, forzatamente, per le strade strabordanti di rifiuti che impediscono un regolare passaggio per chi viaggia in auto. Si può morire, molto serenamente, di un tumore scatenato dalle tonnellate di rifiuti, anche se si paga la tassa sui rifiuti più alta d’Europa. Così. L’incisività di certe pratiche, dunque, risiede nella capacità degli attori di azionarle attraverso dei dispositivi che le rendano pervasive, e onnipresenti. Disseminando gli oggetti funzionali al dominio, si riesce ad eludere il confronto faccia a faccia. Non so se i camorristi l’hanno prima pensato o se ne sono accorti dopo averlo fatto. Sembra internet: senza un centro, il potere risiede nelle infinite periferie che, ovunque, lo costellano. Invisibile, il centro non esiste, ma si disperde in tutte le direzioni. Sembra quindi che la questione rifiuti sia una vittoria, per la camorra, pianificata strategicamente. Ma forse, più verosimilmente, badano solo a far soldi, quei tizi che sversano a cielo aperto tonnellate di monnezza. Fatto è che l’assenza di un centro forte, istituzionalmente parlando, ha consentito al morbo di occupare le periferie installandosi in milioni di punti – in tutte le strade coperte dai rifiuti.

La vittoria della camorra rappresenta la sconfitta più pesante dello Stato. Una vittoria che non esiste ancora in una misura totale, e definitiva. Ma che si nutre dell’incapacità, da parte delle istituzioni, di dare una risposta che agisca dalla base. E sfrutta quell’incapacità per accumulare ulteriore vantaggio, giorno dopo giorno. Le misure adottate, nell’ultimo periodo, sembrano essere più dei palliativi buoni fino alla prossima emergenza, che soluzioni in grado di debellare il morbo colpendolo al cuore. Questo perché il vantaggio che la camorra ha ottenuto, giorno dopo giorno, è considerevole. E per ora si cerca di ridurlo. Ma un sorpasso dello Stato, risulta lungi dal verificarsi. Fa, quindi, anche un po’ tenerezza sentire parlare della sostituzione del capo della Polizia, di Veltroni leader del nascituro Pd, e di altre questioni che sembrano lontane anni luce dai problemi gravissimi che, una zona in cancrena del Paese, si trova ad affrontare quotidianamente. Perché sembra ce lo siamo scordati: la Campania fa parte dell’Italia. Non è uno scherzo, anche se chi vive in queste zone, talvolta, lo prende come tale. Non si tratta di riportare a galla la questione meridionale. Come non si tratta di cercare un posto dove buttare l’immondizia del giovedì. Il problema abbraccia questioni larghe, non il cruccio di un momento. Se l’incisività della camorra è tanto efficace da intaccare le funzioni elementari della vita di un individuo, come il diritto alla salute, creando attorno a lui uno stato altro, in cui i dettami provengono non dalla legge nazionale, ma da quella criminal-imprenditoriale della camorra, allora i guai sono seri. Un potere, quello camorristico, capace d’insinuarsi in zone così intime del sociale, così private, come la salute. Capace di decidere della qualità della vita degli individui: con il caldo pazzesco di questa estate, il rischio di epidemie, nel napoletano, è una realtà immanente. Si è arrivati ad un grado di indigenza tale per cui pare di essere tornati indietro di secoli. Stiamo toccando il fondo del livello minimo di esercizio delle funzioni civili principali: camminare per strada. Addirittura, delle attività commerciali – aperte da decine di anni – saranno costrette a chiudere, per l’emergenza rifiuti. Si compone, dunque, così il quadro: un potere che esercita le sue funzioni lavorando ai fianchi l’istituzione, approfittando delle sue debolezze, e occupando le zone periferiche della società, per stabilizzarsi ovunque. Le metastasi dei rifiuti testimoniano qualcosa di più di un’emergenza di carattere igienico-sanitario. Fin quando, qui al sud, si era costretti a fronteggiare soltanto problemi come la criminalità, o l’assenza di strutture e risorse, o il gap secolare che come un fardello pesa sulle nostre teste, allora la faccenda si poneva diversamente. Si agiva per dare una risposta: non è che puoi prevenire un atto criminale, ma stando alla larga da certe zone ed evitare contesti precisi, ti faceva sentire attivo. Si cercava un modo per contrastare, in maniera partecipativa, certi problemi. Senza la pretesa di risolverli, si cercavano strumenti per smussare angoli che, se smussati, avrebbero consentito di vivere per ancora un po’. Era, allora, un tempo in cui esisteva una certa distinzione tra i soggetti che la camorra colpiva, e quelli che dalla sua minaccia restavano immuni. La questione dei rifiuti, invece, invade la collettività colpendo trasversalmente chiunque, semplicemente, viva qui. Per questo la situazione risulta tragica. Non affiliarsi ad alcun clan, stare con gli occhi ben aperti, costituiva l’atteggiamento medio di difesa nei confronti del potere camorristico: una risposta che non sempre dava i suoi frutti, vedi gli episodi in cui vittime innocenti sono state ammazzate solo perché avevano qualche nesso lontanissimo con chi doveva pagare. Tipo, essere stata la ragazza, tempo addietro, di un affiliato e quindi essere uccisa.

Rifiuti

Tipo, starsene a bere una birra in piazza, con un amico che è invischiato in affari di droga, ed essere inseguiti ed uccisi perché si cerca un segno che testimoni l’idea della pena. Io credo che il cuore della situazione sia lì: la questione della pena. Essere costretti a subire un dominio anche se si il regnante in questione appartiene ad uno stato che non è il tuo: morire limpidamente a casa propria, di tumore, anche se – ribadisco – paghiamo la tassa sui rifiuti più alta d’Europa. L’emergenza rifiuti, in Campania, ha abbattuto tutti gli steccati: non si può più essere parte di un gioco che si è scelti di giocare, ma si deve partecipare al gioco. Anche se non si ha voglia di sporcarsi. Catapultati in una dimensiona che non hanno scelto loro, i cittadini – tutti, anche gli onesti – sono costretti a subire il gioco del potere senza alcuna voglia di stare a quel gioco. Perché non si condividono le regole, e perché si cercano altre regole, più sane, per condurre il gioco. Regole che, in queste terre, sono regole sui generis, ma che tutti hanno imparato a riconoscere, e a capire, e a subire anche. Le parole replicate milioni di volte svuotano di senso sé stesse. Abusate, calpestate, non fanno ormai più rumore. Perché in Campania è così, anche se può risultare strano, o essere smentiti da esponenti illustri della polita che si affrettano a mostrare la faccia buona e pulita di questo mondo. C’è uno scarto enorme tra i palazzi del potere e le strade della quotidianità. Una scollatura immane tra ciò che accade lassù e quello che viviamo quaggiù. Anche le parole sembra abbiano perso la loro funzione comunicativa: lucciole buone a farsi strada nel buio, ora appaiono esili fiammiferi che si spengono miseramente, lasciandoci brancolare nella notte nera. Credo che, per taluni aspetti, l’appartenenza della Campania in Italia risulti più uno status burocratico-storico-formale che una condizione verosimilmente esistente. Può sembrare scandaloso, ma è così. Provare per credere. Basta venire qualche giornata qui, nelle terre in cui chi nasce qui, come dice Saviano, è colpevole solo perché vi è nato. Nelle terre in cui la gente, quando sale le scale con nelle narici l’acre puzza di monnezza, maledice qualcuno che non si sa bene chi sia. Qualcuno capace di essere qui, e altrove, e in nessun luogo contemporaneamente. Quella stessa gente che provava a dire, a modo suo, quella sensazione fatta di mille altre sensazioni frullate, usando un vocabolo: sblut. Da pronunciarsi, tecnicamente parlando, con una leggera esitazione tra la b e la l: come fosse sb-lut. Ma questo tanto tempo fa, quando la gente di queste terre provava ancora a usare le parole, cercando un modo – uno qualunque – perché potessero far rumore, ferire anche, basta che qualcuno le ascoltasse. Ma questo, non adesso. Accadeva tempo addietro. Al tempo in cui la parola aveva ancora un senso, ed un suono – faceva ancora un po’ di rumore, insomma.

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