Tredici anni di processi, ombre e accuse: si chiude definitivamente la vicenda giudiziaria che ha coinvolto Oscar Vesevo, il poliziotto imputato di aver sottratto una chiavetta Usb dal covo bunker del boss Michele Zagaria, a Casapesenna. La Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna inflitta all’agente, ponendo fine a uno dei casi più controversi legati alla cattura del capoclan dei Casalesi.
Il blitz del 2011 e le accuse – Era il 7 dicembre 2011 quando la polizia fece irruzione nell’abitazione della famiglia Inquieto, sotto la quale era stato scavato un bunker dove Zagaria, alias “Capastorta”, si nascondeva da oltre quindici anni. Tra gli agenti c’era anche Vesevo, all’epoca giovane poliziotto, oggi ancora in servizio alla Questura di Isernia. Qualche giorno dopo, cominciarono a circolare sospetti su un presunto furto durante l’operazione: una pen-drive, secondo la Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, contenente “i segreti del boss”, sarebbe stata sottratta e venduta da Vesevo a un imprenditore vicino al clan per 50mila euro.
Processi e contraddizioni – Ma quell’accusa, mai provata, si è sgonfiata nel tempo. Nel processo di primo grado, svoltosi al Tribunale di Napoli Nord, la principale testimone, Maria Rosaria Massa, moglie di Vincenzo Inquieto, proprietaria della casa-bunker, aveva riferito che la chiavetta era effettivamente stata presa dal poliziotto, ma apparteneva alla figlia e conteneva solo foto, canzoni e documenti familiari. Nessun legame diretto con Zagaria, che secondo la stessa donna non era nemmeno pratico di dispositivi informatici. Anche Orlando Fontana, indicato come il presunto acquirente, era stato assolto in un altro procedimento.
La condanna e il ridimensionamento in appello – Nonostante ciò, nel giugno 2023 era arrivata la condanna: sei anni e quattro mesi, di cui quattro anni e sei mesi per peculato e un anno e otto mesi per due episodi di truffa legati alla vendita di un immobile all’asta. Ma già in quella fase l’accusa risultava indebolita: il tribunale aveva escluso l’aggravante mafiosa e assolto Vesevo dal reato di accesso abusivo a sistema informatico. In secondo grado, la pena venne ridotta a tre anni e tre mesi: il peculato fu derubricato in furto aggravato dall’introduzione in un’abitazione, e molti capi d’imputazione risultarono prescritti o improcedibili.
La parola fine della Cassazione – Oggi, la Corte Suprema ha annullato la condanna senza rinvio, accogliendo le ragioni della difesa sostenuta dall’avvocato Giovanni Cantelli. Per i giudici non sussiste l’aggravante: l’accesso del poliziotto all’abitazione era avvenuto in un’operazione di polizia regolarmente autorizzata. Resta solo la prescrizione per altri reati minori, e con essa si chiude un procedimento che ha accompagnato per oltre un decennio la carriera e la vita privata di un servitore dello Stato.
Le parole in aula – «Non ho preso alcuna pen-drive dal covo di Michele Zagaria – ha dichiarato in aula Vesevo –. Durante la cattura ero nel corridoio, a scavare per trovare il bunker. Senza di me, il capo dei Casalesi non sarebbe stato preso». Dichiarazioni sostenute anche dal legale, che ha parlato di «capovolgimento della realtà, con servitori dello Stato trasformati in imputati». La chiavetta “rubata” – a forma di cuore e firmata Swarovski – si è rivelata essere poco più che un oggetto personale. Il simbolo di una vicenda che ha sollevato interrogativi, ma non ha prodotto prove solide. Oggi resta il verdetto della Cassazione e la fine, per Oscar Vesevo, di una lunga battaglia giudiziaria.