Le mani della ‘Ndrangheta su una catena di pizzerie nel Nord Italia

di Redazione

La polizia di Milano ha eseguito nelle province di Milano, Torino e Monza Brianza, un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di nove persone, tutte italiane, ritenute responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere e trasferimento fraudolento di valori. Sequestrate quote societarie e l’intero patrimonio aziendale di 6 società riconducibili agli indagati per un valore di circa 10 milioni di euro; quattro società sono proprietarie di altrettanti ristoranti-pizzerie riconducibili a un noto marchio franchising, il “giro-pizza” Tourlé, mentre una società è proprietaria di un hotel a Cinisello Balsamo.

Le indagini, che hanno ricostruito l’investimento iniziale di 400mila euro nella pizzeria ‘Tourlè’ di Sesto San Giovanni (Milano), hanno consentito di far luce sugli interessi di soggetti contigui a cosche calabresi riguardanti il reinvestimento di denaro frutto di attività illecite, con immissione di grandi capitali nel circuito della grande ristorazione nel Nord Italia. Secondo gli investigatori a capeggiare l’associazione per delinquere sarebbe stato un noto pregiudicato di origini calabresi, Giuseppe Carvelli, in passato indagato con esponenti di alcune cosche di ‘ndrangheta. Nell’ordinanza si legge che il pregiudicato, ora tornato in carcere, “con fine pena al 2026” quattro anni fa è stato ammesso “al lavoro esterno” alle dipendenze di una cooperativa a Bollate e dal marzo 2017 beneficiava “dell’affidamento in prova ai servizi sociali”.

L’inchiesta ha documentato gli “sviluppi” delle attività della banda “in espansione” fino “all’apertura” anche di un locale a Torino, oltre alle pizzerie del marchio già presenti nell’hinterland milanese e non solo. L’apertura del ristorante-pizzeria a Torino, scrive il gip, ha “determinato il trasferimento” di una persona “nel Nord Italia per curare le incombenze relative sotto la costante direzione” del boss calabrese, a cui erano riconducibili, in pratica, i ristoranti del noto marchio e che dimostrava la sua “indiscussa autorità”. C’era, si legge ancora, un “chiaro riconoscimento di posizioni in ordine gerarchico”.

Il gip segnala anche la “raffinatezza degli strumenti giuridici adottati”, tra cui la “costituzione di nuove società e successioni nelle rispettive compagini” e l’utilizzo “del marchio”, come quello continuo di “prestanome” e il ricorso “sempre agli stessi professionisti di comprovata fiducia”, tra cui un notaio di Garbagnate Milanese. Il boss calabrese, tra l’altro, rivendicava il suo ‘livello criminale’, che gli ha assicurato la buona accoglienza a Torino da parte del ‘livello superiore'” e si metteva – spiega sempre il gip – ad intimidire anche i dipendenti quando serviva”.

Sono “almeno” cinquemila i ristoranti delle regioni del Nord in mano alla criminalità organizzata secondo i dati del rapporto agromafie, un business che non si limita solo a bar e ristoranti ma che, dal campo alla tavola, ha un valore di 24,5 miliardi.  La conseguenza di simili interferenze nella ristorazione, secondo Coldiretti, è che si distruggono “la concorrenza e il libero mercato legale” e si soffoca “l’imprenditoria onesta” compromettendo “in modo gravissimo la qualità e la sicurezza dei prodotti”.

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