Roma, rifiuti tossici spediti in Asia e rivenduti come padelle: 7 arresti

di Redazione

Tonnellate di rifiuti tossici spediti via mare dall’Italia fino in Asia per un giro d’affari da 46 milioni all’anno; materiali – come motori di treni o compressori di frigoriferi – che dovevano essere trattati secondo stringenti normative ambientali ma che invece venivano semplicemente ‘macinati’ e, una volta giunti a destinazione, riciclati rivenduti sotto forma di padelle e sportelli per auto.

È stata la Guardia costiera a scoprire il traffico illecito con un’indagine, coordinata dalla Dda di Roma, sfociata in sette arresti tra titolari, amministrativi e tecnici di due aziende specializzate nel trattamento di rifiuti: sequestrati, oltre a una decina di milioni, due stabilimenti in Umbria e nel Lazio. Le accuse ipotizzate nei confronti degli indagati vanno dall’associazione a delinquere finalizzata al traffico e alla gestione illecita di rifiuti all’autoriciclaggio e al falso.

I rifiuti partivano dai porti di Civitavecchia, Livorno, La Spezia, Genova e Ravenna per raggiungere la Cina, la Corea, il Pakistan e l’Indonesia. L’inchiesta è partita all’inizio del 2016, quando da un controllo di routine dei trasporti via mare gli investigatori si sono imbattuti in due società – la Tmr di Castiglione in Teverina (Viterbo) e la Alluminio Frantumati di Orvieto – che effettuavano movimentazioni sospette. Se infatti i porti di destinazione erano sempre gli stessi, quelli di partenza variavano: ascoltando le telefonate, la Guardia costiera ha scoperto che si trattava di una scelta fatta per sviare le indagini.

Il trucco ideato dall’organizzazione era allo stesso tempo semplice e pericoloso: mediante vari giri di false attestazioni e certificati, le aziende acquistavano rifiuti industriali contaminati – soprattutto da Pcb, i policlorobifenili considerati tossici come la diossina – ne simulavano la bonifica e li rivendevano tal quale come materiale recuperato e ‘pronto forno’ per un nuovo ciclo produttivo.

In realtà i rifiuti, in Italia, subivano soltanto una mera macinatura e, inquinatissimi, venivano spediti via mare all’estero senza nessuno scrupolo per la salute degli operatori che entravano in contatto con Pcb, solventi e idrocarburi ben oltre i limiti consentiti dalla legge mediante vari giri di false attestazioni e certificati, le aziende compravano i rifiuti industriali complessi e contaminati – anche da Pbc, vale a dire dai policlorobifenili, sostanze tossiche equiparate alla diossina – e, dopo aver simulato le procedure di bonifica ambientale previste dalle normative italiane e internazionali, li rivendevano tali e quali spacciandoli come materiale recuperato e ‘pronto forno’ per un nuovo ciclo produttivo. In sostanza, le aziende si limitavano a ‘macinare’ i rifiuti, per poi spedirli dall’altra parte del mondo senza minimamente preoccuparsi della salute di chi sarebbe entrato in contatto con quei materiali.

Se qualcuno si accorgeva del trucco, era già pronta la soluzione: interveniva un operaio – tra i sette arrestati – per creare quello che nelle telefonate intercettate viene chiamato ‘il mischiotto’. Un mix di prodotto tossico e non trattato in base alle norme, in modo da abbassare la percentuale di sostanze inquinanti e di rendere ‘commerciale’ il rifiuto. Secondo l’ammiraglio Giuseppe Tarsia, all’epoca comandante del porto di Civitavecchia e ora a Livorno, “non si tratta di un caso isolato e per questo il nostro impegno ambientale proseguirà anche su questo versante”.

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