Terrorismo, torna in carcere la ricercatrice aspirante “foreign fighter”

di Redazione

Palermo – Torna in carcere la ricercatrice universitaria libica fermata lo scorso dicembre dalla Digos a Palermo accusata di fare propaganda per la jihad, anche attraverso la rete.

La Polizia di Stato ha eseguito martedì pomeriggio la misura della custodia cautelare in carcere a carico di Khadiga A. Shabbi, cittadina libica, classe ’70, residente nel quartiere dell’Albergheria, per aver pubblicamente istigato a commettere più delitti in materia di terrorismo, attraverso strumenti informatici o telematici.

L’arresto è scattato a conclusione del complesso iter giudiziario, con la conferma da parte della Corte di Cassazione del provvedimento del Tribunale del Riesame di Palermo. Questo aveva annullato l’ordinanza con cui il Gip aveva disposto per la donna l’obbligo di dimora e non la custodia cautelare in carcere come richiesto dalla Sezione antiterrorismo della Dda di Palermo.

Ricercatrice o aspirante foreign fighters? A dicembre Shabbi venne arrestata perché considerata una “cellula dormiente” vicina all’organizzazione terroristica Ansar Al Sharia Libya. Sostenuta economicamente con una borsa di studio dall’Ambasciata Libica in Italia, la donna era iscritta al dottorato di ricerca della Facoltà di Economia dell’Università di Palermo. Shabbi, originaria di Bengasi, sembra essere legata ai ribelli e ad altri presunti “foreign fighters”, sparsi in tutta Europa, che come lei esaltano il radicalismo religioso e le milizie combattenti in Libia.

Al centro delle indagini, l’attività sul web di Shabbi che sui social avrebbe manifestato il suo interesse per alcune milizie islamiche vicine all’Isis, condiviso foto e video propagandistici, trafficato denaro con soggetti sospetti residenti in Turchia. Tutte attività che hanno fatto credere alla Digos che la donna potesse in un qualche modo offrire supporto logistico ad alcuni “foreign fighters”.

Shabbi contribuiva alla “causa della Jihad ” anche attraverso il cosiddetto meccanismo dei “like”, con il quale si permetterebbe ai profili dei sostenitori dell’Isis di raggiungere una grande visibilità, creando una vera e propria rete di sostegno. Una sorta di Jihad 2.0 insomma, costruita attraverso una diffusione capillare di pagine facebook in lingua araba e intenzionata a reclutare sempre nuovi sostenitori.

Sotto la lente degli investigatori anche il tentativo da parte della donna di far arrivare in Italia dalla Libia suo nipote: combattente in Libia per le milizie vicine all’Isis, al fine di sottrarlo alla cattura da parte dell’esercito regolare libico. Piano poi fallito perché il nipote sarebbe rimasto ucciso nel corso di una operazione militare.

“Vendicate la morte della persona più vicina al mio cuore – aveva scritto la Shabbi su una pagina vicina ai miliziani – loro mi hanno fatto soffrire molto, Dio deve farli soffrire. So che io non posso fare nulla ma se avete bisogno di qualsiasi cosa da me, io la farò”.

Secondo la Polizia ci sarebbe proprio la morte del nipote, quindi la presenza di un “martire” in famiglia, alla base della sua radicalizzazione. Una radicalizzazione tale da essere disposta a tutto per offrire il suo sostengo ai combattenti di Ansar Al Sharia Libya.

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