Addio a Marcello D’Orta. E Napoli auspica: “Io speriamo che me la cavo”

di Emma Zampella

Marcello D’OrtaNAPOLI. Aveva scritto un libro donando a tutti i bambini, soprattutto a quelli sfortunati della sua amata Napoli, la speranza di un futuro migliore.

Una generazione che è cresciuta con il suo motto, “Io speriamo che me la cavo”, ma che può vantare il pregio di aver ricevuto i suoi sottili insegnamenti. I più fortunati dietro i banchi di scuola delle elementari a cui si è rivolto per anni, quelli meno con le pagine del suo libro, best seller da cui è stato tratto un film.

E il suo ruolo, quello de ‘o prufessor, quello di Marcello D’Orta era stato reso mirabile dall’interpretazione di Paolo Villaggio. Nel giorno della sua scomparsa tutta Napoli piange i suoi precetti e le sue regole non scritte in un libro ma fondamentali nella vita. Malato da tempo di tumore, lo scrittore – insegnante , 60 anni, nonostante il calvario di salute, era alla stesura di un libro su Gesù.

A dare la notizia della sua morte è stato suo figlio, padre Giacomo: i funerali si terranno domani nella Basilica di San Francesco di Paola, in piazza Plebiscito a Napoli. Lascia la moglie Laura. Una perdita importante per la città che lo ha conosciuto prima nella sua professione di insegnante, poi, in quella veste insolita, ma efficace di narratore e commentatore della prole difficile della sua Arzano, abilmente descritta nella pagine del suo libro. Impresse nella mente restano le parole dei suoi allievi, quei bambini un po’ troppo cresciuti per stare dietro banchi ma ancora troppo indifesi per buttarsi nelle grinfie di una vita difficile. Un successo, quello letterario, che non lo ha mai separato dalla sua professione.

Quando parlava di sé, si definiva sempre un maestro a tutto tondo, perché pur avendo abbandonato la professione dal 23 anni ormai, non aveva mai smesso di essere in contatto con maestri, insegnanti e alunni. Perchè come diceva lui: se lo si fa con passione, maestri si resta tutta la vita”.

Eppure quella stessa Napoli che lui ha raccontato e oggi lo piange, lo aveva messo all’angolo, un po’ come la vita aveva fatto con quei bambini di cui lui parlava. “A Napoli fanno finta di non conoscermi. – diceva – Se c’è un convegno sugli scrittori napoletani, non mi invitano certo. Per gli esponenti della letteratura di Napoli io non esisto”.

Ma lui ha continuato a cavarsela lo stesso e a vendere libri che parlassero di insegnanti ed insegnamenti a vario titolo. Dopo la pubblicazione di “Io speriamo che me la cavo”, D’Orta non ha mai smesso di scrivere. Tra i tanti titoli, uno sul «mistero» della conversione al cristianesimo di Leopardi e su quello della sua morte (Piemme), un Elogio degli anni Sessanta (Barbera Editore). E poi “Dio ci ha creato gratis” (anch’esso un successo di pubblico: vendette mezzo milione di copie), “Romeo e Giulietta si fidanzarono dal basso”, “Il maestro sgarrupato”, “Nero napoletano”, “Maradona è meglio ‘e Pelé. I bambini di Napoli giudicano il pibe de oro”.

Un professore sempre lungimirante e di impatto. Così come quando aveva parlato per la prima volta della sua malattia: “Quando, alcuni mesi fa, mi fu diagnosticato un tumore – scriveva – il primo pensiero fu: la monnezza. È colpa, è quasi certamente colpa della monnezza se ho il cancro. Donde viene questo male a me che non fumo, non bevo, non ho – come suol dirsi – vizi, consumo pasti da certosino? Mi ricordai, in quei drammatici momenti che seguirono la lettura del referto medico, di recenti dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale della sanità, secondo cui era da mettersi in relazione l’aumento vertiginoso delle patologie di cancro con l’emergenza rifiuti. Così sono stato servito. A chi devo dire grazie? Certamente alla camorra”. Ed in un momento difficile come quello attuale, descritto anni fa dal maestro, i napoletani continuano ad affermare: “Io speriamo che me la cavo”.

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