Morti bianche, il commento di Enrico Milani

di Redazione

Enrico MilaniCASERTA. L’assessore provinciale Enrico Milani, alla luce della tragedia che a Caserta ha causato l’ennesima morte bianca, in un articolo sul quotidiano Buongiorno Caserta, parla della sicurezza sul lavoro.

“Lunedì scorso Michele è volato giù dal ponteggio, davanti a tutti, nel cuore della città, corso Trieste, Caserta. Ucciso, sul lavoro, dal lavoro insicuro. Il sangue di Michele ha disegnato una grande macchia rossa nel salotto buono della città. Tutte e tutti hanno visto, tutti hanno fatto i conti, di colpo, con l’assurdità di morire così a nemmeno quarant’anni, uscendo la mattina per andarsi a guadagnare il pane della giornata per i figli, per la famiglia. “Per recare il proprio contributo produttivo al Paese”, dando forma e concretezza all’adempimento degli inderogabili doveri di solidarietà che la nostra Costituzione richiede, nella seconda parte dell’articolo 2, a ciascuna/o di noi, e vedendosi negati, per sempre, quei “diritti inviolabili” solennemente declamati nell’apertura dello stesso articolo. Questa volta, però, l’ennesimo “omicidio bianco”, di quella tragica lista che ogni anno si allunga di oltre un morto al giorno, senza contare gli infortuni più o meno gravi, non potrà essere ignorato, dimenticato, espunto, proprio perché è successo lì, davanti agli occhi di un’intera comunità. Nessuno potrà voltare la testa, perché chiunque ha visto cosa significhi una tavola di legno non fissata. Chiunque ha visto cosa vuol dire che manca la cintura salvavita, la rete di protezione, o altre misure analoghe. D’improvviso, chiunque ha incluso Michele nella tremenda contabilità del sangue sul lavoro, associandolo agli operai della Thyssenkrupp bruciati vivi e a tutti gli altri che hanno segnato nello stesso modo una geografia della “morte per profitto”, da Molfetta a Teramo, da San Candido a Mugnano, da Marcianise a Bergamo, da Macerata Campania a Taranto. Ora, inevitabilmente, l’elaborazione del lutto per l’intera collettività, a partire dalle istituzioni, dovrà fare i conti con ciò che facciamo e ciò che non facciamo per la sicurezza del lavoro. A nessuno sarà consentito chiamarsi fuori, perché ciò facciamo è davvero, scandalosamente, poco. Circa un anno fa, veniva presentato alla Camera dei Deputati il rapporto Eurispes intitolato «Infortuni sul lavoro: peggio di una guerra», in cui si sottolineava come gli incidenti sul lavoro in Italia avessero causato più morti della seconda Guerra del Golfo nei quattro anni dall’invasione americana in Iraq, così facendo balenare il tremendo pensiero che la “civiltà del lavoro” si riveli sovente come “civiltà di morte” alla stessa stregua del disvelamento della “civiltà d’occidente” come “civiltà di guerra”. Eppure, non più di qualche settimana fa, in occasione del varo definitivo del nuovo Testo Unico sulla sicurezza del lavoro, i rappresentanti della più autorevole associazione imprenditoriale non hanno trovato di meglio che scagliarsi contro “sanzioni troppo punitive”. Incredibile, ma vero ! Da sole, tuttavia, le leggi non bastano. Anzi, non è questione di leggi, che ci sono e sono anche ben articolate e sanzionate, con l’entrata in vigore del citato Testo Unico, ben 304 articoli, corredato da oltre una quarantina di Allegati. Occorrono cinque cose essenziali, ed ogni istituzione, organizzazione, associazione deve fare la sua parte. Primo, occorre costruire fin dalle scuole e dall’insegnamento, la cultura e la formazione permanente della prevenzione e della sicurezza del lavoro. Secondo, occorre intervenire, scardinandolo, sul sistema ribassista degli appalti e dei subappalti, che generano malaffare, che sono di fatto un portafoglio della criminalità organizzata nonché uno dei varchi più frequentati di interscambio e reciproca regolazione di interessi con la malapolitica e la malamministrazione, sotto il nero dominio dell’irregolarità, dell’insicurezza e del sommerso. Terzo, occorre cooperazione tra le istituzioni politiche, amministrative, di controllo e repressive, affinché si realizzino e si implementino banche-dati, sistemi di monitoraggio sul territorio, programmazione e coordinamento di ispezioni e controlli, come già si sta facendo nel nostro territorio grazie al tavolo operativo di Prefettura, Procura, Provincia, AA.SS.LL., Direzione-Ispettorato del lavoro, Inps, Inail e forze dell’ordine. Quarto, bisogna dare poteri effettivi, sia di controllo che di intervento ostativo, ai lavoratori incaricati della funzione di “rappresentanti della sicurezza”, ma bisogna anche proteggerli da ricatti, minacce, condizionamenti e provvedimenti punitivi che troppo spesso imprenditori senza scrupoli gli scaricano addosso per impedirne di fatto l’attività: è evidente che nessun controllo sarà mai veramente efficace se non parte, giorno per giorno, ora per ora, minuto per minuto, dall’interno dei luoghi di lavoro, dei cantieri, delle fabbriche, e se non può vertere sulle fasi, sui ritmi, sui mansionari, sulla composizione e sulle modalità dei processi produttivi. Quinto, occorrono più controlli, più personale, più formazione, più risorse. Senza di ciò, ogni altro discorso è vano, e rischia di diventare puro esercizio retorico. Fatta base cento ad indicare la quantità necessaria di controlli nel nostro territorio (che pure in Campania ha conosciuto il più alto numero di cantieri sequestrati, soprattutto grazie all’intervento dei Carabinieri), oggi siamo a sette. Nel penultimo concorso, sotto il governo di centrodestra, di mille nuovi ispettori nessuno venne assegnato ai territori meridionali. Neppure gli ulteriori trecento, stavolta col governo di centrosinistra, sono destinati a varcare i confini meridionali, nonostante gli impegni assunti dal ministro competente. Stiamo letteralmente escogitando ogni possibile meccanismo che ci metta in condizione di formare nuovo personale per i controlli ed inviarlo in trincea. Non sappiamo ancora come riusciremo a farlo, mancando le necessarie risorse, ma sappiamo che occorre farlo, altrimenti, nelle condizioni date, la lotta è impari. Non bisogna arrendersi. Lo dobbiamo a Michele, ai suoi figli e alla sua compagna, e a tutti gli altri sacrificati sull’altare del profitto, italiani, tunisini, marocchini, pakistani, rumeni, di qualunque paese, cittadini del mondo, vittime di vili egoismi e di sistematica insicurezza. Ma soprattutto lo dobbiamo ai giovani che si affacciano oggi ad un lavoro disperatamente precario e insicuro, sottopagato anche quando allineato alle tabelle contrattuali, privato di dignità e diritti: glielo dobbiamo perché non è giusto che siano derubati della speranza, del futuro, della vita”.

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