E’ morto Sergio Marchionne: il manager col maglioncino che rilanciò la Fiat

di Redazione

Si è spento, all’ospedale universitario di Zurigo, il top manager Sergio Marchionne. 66 anni compiuti a giugno, l’ex ad di Fca era stato ricoverato nella struttura svizzera lo scorso 27 giugno per un intervento alla spalla destra. L’ultima sua uscita pubblica era stata due giorni prima, a Roma, alla consegna di una Jeep all’Arma dei Carabinieri. In quell’occasione era apparso già affaticato. Ma per lui, figlio di carabiniere, quell’appuntamento era irrinunciabile. Era il suo ultimo saluto, per celebrare la fine di un’esperienza umana e professionale.

Dopo l’intervento alla spalla, le sue condizioni parevano nella norma. Poi, dieci giorni fa, si sono aggravate a causa di “complicanze postoperatorie”. Anche se tutti in Fca tenevano le bocche cucite, per Marchionne ormai non c’erano speranze. al suo capezzale i due figli, Alessio Giacomo e Johnatan Tyler, e la compagna Manuela. Qualche giorno fa si era diffusa la voce che Marchionne avesse un tumore ai polmoni. Una voce diffusasi dopo la lettera scritta da Franzo Grande Stevens al Corriere della Sera, nella quale il legale di fiducia di Gianni Agnelli scriveva: “Conoscevo la sua incapacità di sottrarsi al fumo continuo delle sigarette. E come temevo, da Zurigo ha avuto la conferma che i suoi polmoni erano stati aggrediti e capito che era vicino alla fine”. Insomma, la malattia di Marchionne sarebbe colpa del fumo. E tornerebbe anche il fatto che l’ospedale di Zurigo è un polo oncologico di eccellenza. C’è però anche un’altra voce, ed è quella che conferma la ricostruzione dell’azienda, ossia una complicazione improvvisa in seguito a un intervento alla spalla. E combacia anche con il possibile male ai polmoni. Secondo gli esperti il tumore ai polmoni causa problemi e dolori proprio alle spalle. L’intervento in quella zona può mettere in conto possibili problemi all’aorta durante l’intervento.

Venerdì scorso, con una lettera ai dipendenti, il presidente di Fca, John Elkann, aveva già spento qualsiasi speranza, scrivendo ai lavoratori che “Sergio non tornerà più”. I consigli di amministrazione nominavano quindi i suoi successori: alla Fca Mike Manley, alla Ferrari Louis Camilleri, ex numero uno di Philip Morris e già membro del cda della Rossa, mentre John Elkann ha assunto la carica di presidente. A Suzanne Heywood, infine, la carica di nuova presidente di Cnh Industrial.

Abruzzese d’origine, nato a Chieti nel 1952, Marchionne impara la cultura del lavoro in Canada, dove si trasferisce all’età di 14 anni con il padre, carabiniere in pensione in cerca di opportunità per i figli. Da giovane Marchionne passa le serate a giocare a scopa, briscola e poker nell’associazione carabinieri. Da amministratore delegato, invece, si alza alle cinque del mattino e legge per un paio d’ore i giornali. Prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi quelli italiani, di cui non condivide le troppe pagine di politica. Per il manager la lingua italiana “è troppo complessa e lenta” e se “un concetto che in inglese si spiega in due parole, in italiano ne occorrono almeno sei”.

Gli oltre 14 anni di storia tra Marchionne e il Lingotto iniziano nel maggio del 2003, quando l’italo-canadese entra da indipendente nel cda di un casa auto sull’orlo della bancarotta. Il manager arriva dalla ginevrina Sgs, società nell’orbita della famiglia Agnelli, risanata in soli due anni. Nel giugno 2004 diventa ad di Fiat al posto di Giuseppe Morchio. E vince la prima sfida. Con gli 1,55 miliardi di euro pagati da Gm per rompere l’alleanza con il Lingotto, il nuovo capo azienda inizia il rilancio di Fiat con i nuovi modelli. Ironico, forte e diretto, il suo dress-code non passa inosservato. In ciascuna delle sue case negli Stati Uniti, in Svizzera e a Torino ha oltre 30 maglioncini blu tutti uguali, che indossa in ogni occasione al posto della giacca e la cravatta. Si ricordano tre eccezioni. Quando si presenta alla stampa, quando va in Senato a riferire, dove la giacca e la cravatta sono obbligatorie, e alla presentazione dell’ultimo piano industriale dello scorso primo giugno, a Balocco. Ma in questa occasione mette una cravatta Ermenegildo Zegna solo per celebrare il target di ‘zero debito’, uno delle tante sfide vinte dall’a.d., di cui si ricorda anche una parentesi, nel 2012, con la barba.

“Chi comanda è solo. Io mi sento molte volte solo”, disse una volta Marchionne, cui non mancava la forza di prendere scelte difficili. Appena diventa numero uno modifica le catene di comando, dimezza i livelli gerarchici da nove a cinque e introduce il ‘tu’ invece del ‘lei’, cambiando una struttura ingessata. Vuole una “flessibilità bestiale” ed evita le “linee prevedibili” per superare i concorrenti. Dopo il blitz del 2009, porta nel 2014 Fiat a ingoiare il 100% di Chrysler, facendola diventare Fca, il settimo produttore mondiale. E da Detroit lancia un piano ambizioso di cui i frutti sono attesi alla fine di quest’anno. Una scalata, quella a Chrysler, condotta tra la crisi europea, gli attacchi politici in Italia e le diffidenze degli analisti. Marchionne tira dritto e si guadagna la copertina di ‘Time’, che lo chiama lo Steve Jobs dell’auto, e il plauso del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che lo trasforma in icona della ripresa dell’auto a stelle e strisce. E ultimamente si sente dare anche del “preferito” del nuovo inquilino della Casa Bianca, Donald Trump, per i suoi investimenti in Usa. D’altra parte, Fca per il pragmatico Marchionne è sempre “governativa”.

E nonostante questo, dopo il rilancio delle linee di montaggio con i successi della Nuova Cinquecento e della Grande Punto, nel 2006 Marchionne riesce persino a farsi dare del “borghese buono” dal segretario di Rifondazione Comunista, Fausto Bertinotti. Nel 2010, invece, il manager con il maglioncino dà una scossa alle relazioni industriali. Fiat straccia il contratto nazionale ed esce da Confindustria. Sono gli anni dei durissimi scontri con la Fiom del segretario generale, Maurizio Landini, che porta il gruppo in tribunale ed è l’unico dei grandi sindacati a non firmare il nuovo contratto aziendale che sarà approvato dal referendum dei lavoratori.

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