La depressione come un’epidemia? Cipriano: “Basta considerarla una patologia”

di Gabriella Ronza

La definiscono “malattia del secolo”, almeno per quanto concerne le patologie di tipo psicosomatico: si tratta della depressione. Nel “Terzo Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, del 1980, si dice che può essere “classificata come affetta da depressione” quella persona che presenta cinque di questi nove sintomi: “stato d’animo di tristezza, abbattimento”, “perdita di piacere e interesse”, “cambiamenti nell’appetito”, “disturbi del sonno”, “agitazione, irrequietezza o al contrario rallentamento”, “riduzione dell’energia, facile stanchezza e spossatezza”, “senso di valere poco, senso di colpa eccessivo”, “difficoltà di concentrazione, incapacità di pensare lucidamente”, “pensieri ricorrenti che non vale la pena di vivere o pensieri di morte e di suicidio”.

Lo psichiatra, medico e psicoterapeuta Piero Cipriano guarda con attenzione agli effetti sociali di questa dettagliata etichetta che ha creato una sorta di manicomio metafisico, un mondo in cui la depressione diverrà la prima patologia dal 2020 in poi e che già oggi è la principale malattia psichiatrica.

Il 2014, ad esempio, è stato l’anno del “picco” per il numero medio (39,3) di dosi di farmaco per la depressione consumate giornalmente da mille abitanti.

I medici sono quasi tutti d’accordo nel parlare di una “società dei depressi”. Che non è solo italiana. Per l’Organizzazione mondiale della Sanità, la depressione colpisce oltre 350 milioni di persone (i dati sono del 2012, le stime di oggi parlano di almeno mezzo miliardo di individui).

Una “pseudo-pandemia” per Cipriano, che nel 2015 ha pubblicato il libro “Il manicomio chimico” e ha impiegato parte del suo libro per una restituzione fruibile dell’inchiesta “Indagine su un’epidemia”, curata nel 2012 dal giornalista Robert Whitaker.

“Dagli ansiolitici agli antidepressivi, dati per ogni ombra che si staglia come somatizzazione, fobia, panico, bulimia, sindrome premestruale, malumore. E questi farmaci, che non sono affatto esenti da affetti avversi, non sono destinati ad essere assunti per qualche mese, come sarebbe saggio, ma di solito vengono prescritti e mai più tolti” afferma lo psichiatra. “Quando assumono questo tipo di medicinali, i pazienti al di sotto dei 18 anni presentano un aumentato rischio di effetti indesiderati come il tentativo di suicidio e atteggiamento ostile”, ha scritto l’Aifa nell’aprile del 2014.

Cipriano si distingue nettamente, lui che nelle sue “cronache” suggerisce trattamenti con antidepressivi solitamente non più lunghi di 4-6 mesi. Perché le “persone non vanno considerate come corpi, ma come esseri relazionali che in quanto tali hanno estremo bisogno di relazioni. Il medico prescrive se stesso, prima del farmaco, invece l’attuale modalità di presa in carico terapeutica si rivolge spesso in una oggettivazione del paziente, ridotto a corpo malato da etichettare e aggiustare con molecole. Non voglio dire che una buona relazione risolva tutto, ma un confronto terapeutico empatico e caldo è necessario”.

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