Scandalo Onu: caschi blu accusati di abusi sessuali

di Gabriella Ronza

È datato al mese di giugno lo scandalo, su casi di presunti abusi sessuali, che ha investito l’Organizzazione delle Nazioni Unite, ma la sua “eco” sembra ancora non essersi attutita.

La grave accusa, portata alla luce da un report interno dell’Oios (i servizi di investigazione dell’Onu), pesa sui militari impegnati ad Haiti, in Repubblica Democratica del Congo, in Liberia e in Sud Sudan.

Tra il 2008 e il 2013 sono stati registrati ben 480 presunti casi di sfruttamento e violenza sessuale (un terzo ha coinvolto minori).

Le prestazioni sessuali sarebbero state utilizzate come merce di scambio: le popolazioni avrebbero acconsentito per ottenere cibo, denaro, vestiti, telefonini e profumi.

La risposta dell’Onu è stata subitanea: l’organizzazione ha offerto discretamente test del Dna per dimostrare la paternità dei cosiddetti peacekeepers baby (presunti figli dei “caschi blu”).

Il capo dei diritti umani dell’Onu, Zeid Raad al-Hussein, ha affermato che i bimbi nati da tali rapporti sono in una situazione finanziaria disperata e stabilire un’eventuale paternità potrebbe consentire loro di ricevere un aiuto.

Il test, tuttavia, non è obbligatorio ed è stato accolto in modo ambiguo, perché i Paesi che contribuiscono al dispiegamento dei caschi blu non guardano positivamente ad una pratica in grado di rivelare non solo la paternità, ma anche gli abusi.

Un caso davvero delicato questo, considerando che l’Onu, attraverso un bollettino ufficiale del 2003, aveva severamente vietato ai peacekeeper di avere rapporti sessuali con la popolazione locale.

Secondo un altro rapporto dell’Onu, però, il metodo più infallibile per affrontare le rivendicazioni di paternità sarebbe una banca dati del Dna di tutte le truppe.

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