Oscar 2015, stravince “Birdman”. Quarta statuetta per l’italiana Canonero

di Gaetano Bencivenga

L’87esima edizione dei premi Oscar, andata in scena al Dolby Theatre di Los Angeles ha avuto un trionfatore su tutti, nonostante il verdetto risultasse alla vigilia incerto, l’istrionico “Birdman”. Il film, diretto dal messicano Alejandro  G. Inarritu,  ha portato a casa quattro statuette su nove nomination, ovvero film, regia, fotografia e sceneggiatura originale, prevalendo su tutti i diretti concorrenti, “Boyhood” in testa.

Interpretato da un cast stellare, nel quale spicca, senza dubbio, il redivivo Michael Keaton, narra, ricorrendo alla tecnica di un lungo, coraggioso, avvolgente piano sequenza, il tentativo di riscatto di un ex attore/supereroe da blockbuster, caduto in disgrazia, alla ricerca di un rilancio intellettuale sui palcoscenici di Broadway.

Per il secondo anno consecutivo, quindi, dopo Alfonso “Gravity” Cuaron, l’Academy ha scelto di glorificare un cineasta ispanico, dimostrando, al contempo, quanta strada si stia facendo, sotto la presidenza Obama, verso il riconoscimento di una sostanziale eguaglianza agli immigrati legali. E a questi ultimi si è, appunto, riferito Inarritu nel suo, a tratti spassoso, discorso di accettazione del prestigioso trofeo.

Comunque nell’edizione 2015 i sermoni, più o meno impegnati, dal pulpito dei vincitori hanno lasciato il segno come quelli di Julianne Moore, finalmente miglior attrice protagonista per “Still Alice”, ed Eddie Redmayne, commosso miglior attore protagonista per “La teoria del tutto”, che hanno entrambi dedicato l’agognato riconoscimento a tutti i malati del pianeta, soprattutto, a quelli affetti dalle gravi sindromi da loro interpretate sullo schermo nei rispettivi lungometraggi; oppure la vibrante Patricia Arquette, miglior attrice non protagonista per “Boyhood”, trasformatasi d’un tratto in paladina delle rivendicazioni delle donne d’America.

In una serata delle stelle presentata con piglio ironico dalla star catodica Neil Patrick Harris, gay dichiarato e giunto alla cerimonia mano nella mano del marito, ha brillato anche la creatività nostrana. La 69enne torinese Milena Canonero ha, infatti, meritato il suo quarto Oscar per i costumi eleganti e stravaganti del “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson, capace di agguantare altre tre statuette “tecniche” (trucco, scenografia, colonna sonora). L’elegante italica “artigiana”, fiore all’occhiello della nostra cultura stilistica nel mondo, aveva già trionfato nel 1976 (“Barry Lyndon”), nel 1982 (“Momenti di gloria”), e nel 2007 (“Marie Antoinette”).

Tre meritati premi sono andati al “jazzato” “Whiplash” di Damien Chazelle (montaggio, mix sonoro, attore non protagonista J. K. Simmons), mentre uno a testa se lo sono guadagnati “The Imitation Game” (sceneggiatura non originale), “Big Hero6” (cartone animato), e il polacco “Ida” di Pawel Pawlikowski (film in lingua straniera).

Intensità emotiva e lacrime malinconiche hanno incorniciato il momento chiamato “In Memoriam”, teso a ricordare gli artisti defunti. Se l’affascinante Virna Lisi ha avuto l’onore della menzione, lo stesso non è avvenuto per il maestro Francesco Rosi. Dimenticanza, ovviamente, imperdonabile. Standing ovation, infine, per le performance cantate di John Legend, interprete del singolo “Glory” dal film “Selma”, Oscar per la canzone originale, e Lady Gaga, calamitante nel tributo al cinquantennale del musical dei musical “Tutti insieme appassionatamente”, esibitasi per l’occasione al fianco dell’immarcescibile Julie Andrews, stella fulgida dell’omonimo lungometraggio.

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