Colafigli, il “Bufalo” di Romanzo Criminale, detenuto ad Aversa

di Antonio Taglialatela

Marcello ColafigliAVERSA. Marcello Colafigli, 56 anni, detto “Marcellone”, elemento di spicco di quella che fu la famosa Banda della Magliana, era detenuto fino a poco tempo fa nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa per scontare la pena dell’ergastolo.

Giancarlo De Cataldo si è ispirato a lui per il personaggio di “Bufalo” nella sua opera letteraria “Romanzo Criminale”, dalla quale sono stati tratti l’omonimo film del 2005 diretto da Michele Placido (in cui il ruolo del “Bufalo” è affidato a Francesco Venditti, figlio del cantautore Antonello) e le due serie tv andate in onda su Sky dirette da Stefano Sollima. Rispetto al film, in cui aveva un ruolo marginale, nella serie televisiva il personaggio ispirato a Colafigli, grazie anche alla grande interpretazione di Andrea Sartoretti, è stato trattato in modo più approfondito tanto da renderlo tra i principali protagonisti, addirittura colui che apre e chiude la serie.La prima puntata inizia infatti con un flashforward ai giorni nostri: un anziano viene pestato da alcuni bulli della Magliana, lui si rialza, impugna una pistola e spara ai ragazzini, per poi urlare “Io stavo col Libanese”. Lo sconosciuto, nella puntata finale della seconda e ultima stagione, si rivelerà essere l’invecchiato“Bufalo”.

Ma chi era Colafigli nella realtà? Sembra non tanto diverso dalla finzione. Orfano di madre e sopravvissuto a un parto gemellare, Colafigli nasce nel 1954 e vive da bandito. Entra a far parte della Banda della Magliana fin dagli albori grazie al rapporto non solo di amicizia ma di “devozione” con Franco Giuseppucci, detto “Er Negro”, fondatore e capo indiscusso della banda, a cui è ispirato il personaggio del “Libanese”, interpretato nel film da Pierfrancesco Favino e in tv da un superlativo Francesco Montanari. La morte di Giuseppucci, nel settembre 1980, ad opera del clan rivale dei Proietti (detti “Pesciaroli”), provocò a “Marcellone” un’indescrivibile sete di vendetta. Su ordine di Maurizio Abbatino (detto “Crispino”, “Il Freddo” del romanzo, che raccolse l’eredità di Giuseppucci) partì la caccia all’uomo, fino al 16 marzo 1981, quando Colafigli, insieme ad Antonio Mancini (detto “L’accattone”, il “Ricotta” nel romanzo), fu colto in flagrante dalla polizia mentre uccise uno dei “Pesciaroli”, Maurizio Proietti. Aspettarono i due fratelli Proietti in via Donna Olimpia 152, a Roma, dove si nascondevano da mesi. Quando li videro arrivare, spararono.

Con i Proietti c’erano anche mogli e figli, rimasti feriti. I due killer scapparono in strada, ma in quel momento transitava un’auto della polizia e si scatenò un conflitto a fuoco. Colafigli e Mancini rimasero feriti e si introdussero in un condominio fino a raggiungere una mansarda, dove si barricarono. Iniziò la trattativa, che si concluse con l’arresto dei killer. Mentre veniva ammanettato dai poliziotti, Colafigli chiedeva: “Ditemi che l’ho ammazzato quell’infame che ha sparato a Franco mio”. Lo aveva ammazzato: Maurizio “il pescetto” era morto. Si era invece salvato (per la seconda volta) l’altro fratello Proietti, Mario, detto “Palle d’oro”, che però sembra non avesse partecipato all’agguato mortale contro Giuseppucci. Il secondo Proietti implicato era probabilmente Fernando, ucciso nel 1982.

Una volta uscito, sembra accertato che Colafigli commissionò l’omicidio di Enrico De Pedis (detto “Renatino”, il “Dandi” del romanzo) per punirlo dello scarso “interesse giudiziario” per la sua situazione. Colafigli fu accusato di essere stato anche il mandante di altri omicidi nei confronti di ex compagni della banda nella fase finale dell’organizzazione (1990-91). Venne condannato per tre omicidi e gli venne riconosciuta l’infermità mentale.

Di lui Antonio Mancini dice: “Marcello Colafigli aveva studiato da geometra, ma fisicamente era una specie di orso. Un uomo dotato di una forza disumana. In tribunale da solo ha scosso la gabbia dove eravamo chiusi, con un pugno ha incrinato il vetro blindato. Ma se lo rimproveravo per qualcosa, si faceva rosso in viso come un bambino e la peggiore parolaccia che conosceva era ‘perbacco’”.

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