Milano, studente accoltellato: arrestati cinque ragazzi. Nelle chat: “Speriamo che muoia…”

di Redazione

Milano – Ridevano e si scambiavano messaggi su quel video in cui si vede il corpo di un coetaneo massacrato di calci e pugni, accoltellato e lasciato a terra in una pozza di sangue in via Rosales, alle spalle di corso Como. Oggi quei cinque ragazzi, tra i 17 e i 18 anni, tutti di Monza, sono stati arrestati dalla Polizia di Stato con l’accusa di tentato omicidio pluriaggravato e rapina pluriaggravata ai danni di uno studente bocconiano di 22 anni, rimasto con lesioni permanenti a una gamba dopo l’aggressione avvenuta nella notte dello scorso 12 ottobre.

Gli arresti e le accuse – L’ordinanza di custodia cautelare è stata emessa dal giudice per le indagini preliminari di Milano ed eseguita questa mattina dagli agenti del commissariato Garibaldi-Venezia. In carcere a San Vittore sono finiti i due diciottenni, Alessandro Chiani e Ahmed Atia (nella foto), mentre i tre minorenni sono stati accompagnati all’istituto penale per minori Beccaria. Per tutti l’accusa è di tentato omicidio pluriaggravato e rapina pluriaggravata: per i due maggiorenni il rischio è una condanna fino a 21 anni di reclusione, che potrebbe scendere tra i 10 e i 14 anni in caso di rito abbreviato. A carico del ragazzo che ha materialmente sferrato le coltellate e del coetaneo ritenuto il “palo” sono contestate anche le aggravanti della minorata difesa, del concorso con minori e dell’azione commessa per portare a termine un altro reato, la rapina dei 50 euro strappati alla vittima. Domani, venerdì 21 novembre, i cinque saranno interrogati dalla gip Chiara Valori.

La notte della violenza – Tutto nasce da un’uscita serale da Monza verso la movida milanese, per festeggiare il compleanno di uno dei tre minorenni. È la notte del 12 ottobre e sono circa alle ore 3 quando, fuori dal Play Club, tra corso Como e i grattacieli di Porta Nuova, il gruppo individua il bersaglio: un 22enne milanese, studente dell’università Bocconi, che si trova da solo. «Fra, torna a casa, sei troppo marcio. Lo dico per il tuo bene», si dicono tra loro prima di avvicinarsi al ragazzo. La scusa per bloccarlo è banale: «Hai soldi da cambiare? Perché ho 20 euro interi e devo fare benzina». Il giovane estrae una banconota da 50 euro, uno dei 17enni gliela strappa dalle mani e il gruppetto si allontana. Il 22enne li segue per cercare di recuperare i soldi: è l’inizio del pestaggio. Sotto i portici di via Rosales, quattro di loro lo accerchiano e lo travolgono con calci e pugni, continuando a colpirlo anche quando è ormai a terra. Poi si avvicina Alessandro Chiani, riconoscibile in giacca e casco bianchi. Ha un coltello a serramanico: estrae la lama e la affonda due volte, al gluteo e al fianco sinistro. Quando arrivano i soccorsi, il ragazzo ha un polmone collassato, una lesione spinale, ha perso moltissimo sangue ed è in pericolo di vita.

Le condizioni della vittima e la prognosi – Trasportato d’urgenza all’ospedale Fatebenefratelli, il 22enne viene operato più volte e sottoposto a diverse trasfusioni. In un primo momento il ferimento sembrava meno grave, ma i medici si accorgono che i fendenti al gluteo e alla schiena sono profondi: uno ha lesionato un’arteria provocando una grave emorragia interna, l’altro ha intaccato il midollo, compromettendo la mobilità della gamba sinistra. A oltre un mese dall’aggressione il giovane è fuori pericolo ma ancora ricoverato, con danni considerati al momento permanenti e non recuperabili.

Le indagini tra testimoni, telecamere e chat – L’inchiesta del commissariato Garibaldi-Venezia parte dalle testimonianze di due ragazze che, quella notte, avevano notato il gruppetto insieme alla vittima: «Mi davano l’impressione di importunarlo», hanno riferito, ricordando spinte ripetute prima che tutti sparissero sotto i portici di un hotel di via Rosales. «Ho sentito a un tratto un forte tonfo», hanno aggiunto: quando si avvicinano trovano il 22enne accasciato e sanguinante, mentre i cinque sono già fuggiti. A chiudere il cerchio sono le numerose telecamere della zona, che ricostruiscono l’intera sequenza dell’aggressione e consentono di identificare il gruppo. Diciassette giorni dopo il raid, gli investigatori bussano alle case dei ragazzi di Monza: nelle abitazioni recuperano i vestiti indossati quella notte, perfettamente compatibili con le immagini di videosorveglianza, e un coltello a serramanico. Dagli smartphone emergono chat e messaggi sull’aggressione, nonostante i tentativi di cancellarli. In questura, nella sala d’attesa, vengono intercettate frasi che – scrive il giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza – mostrano «il loro pieno coinvolgimento» e un inquietante compiacimento: «La prossima volta ci bardiamo meglio», «Non so se si vede il video dove lo scanniamo», «Anche io voglio vederlo, voglio vedere se ho picchiato forte», «L’ho scassato», fino a «speriamo che quel co… e muoia» e «se serve vado a staccargli i cavi».

Famiglie “normali” – I cinque indagati sono coetanei molto legati tra loro, ragazzi di Monza cresciuti tra palazzine e villette del quartiere Triante e altre zone residenziali. Figli di famiglie descritte come “normali”: un padre bancario, un agente di commercio, genitori che lavorano e che, fino a oggi, li vedevano come adolescenti come tanti, tra scuola, oratorio, calcio e videogiochi. Uno dei 17enni studia al Mosè Bianchi, con alle spalle soltanto un debito scolastico poi recuperato; un altro gioca a calcio in una società sportiva monzese; un terzo, ricordano i coetanei, aveva «il vizio di menare le mani», considerato un bullo. I due maggiorenni hanno piccoli precedenti di polizia: uno per furto, l’altro per possesso di arma bianca. Quando gli agenti si presentano per le perquisizioni, i genitori restano interdetti. «Non sapevo girasse con il coltello», dice la madre di uno dei due diciottenni. «Siamo sempre stati una famiglia perbene, siamo distrutti per tutta la situazione, credetemi se vi dico che abbiamo pregato per il ragazzo», aggiunge, parlando dietro il portone di casa.

La voce del padre: “Mio figlio è vivo per miracolo” – In televisione, nel programma Dentro la Notizia su Canale 5, il padre dello studente bocconiano non nasconde la gravità di quanto accaduto. «Mio figlio è vivo per miracolo», dice, ricordando che il ragazzo è arrivato in ospedale in condizioni disperate. «È vivo perché era a 500 metri», spiega, riferendosi alla vicinanza del Fatebenefratelli, che ha permesso ai medici di intervenire in tempi rapidissimi dopo la chiamata al 112. Ora la famiglia è concentrata sulla lunga riabilitazione e sulla prospettiva di una disabilità permanente alla gamba, che peserà sul futuro del giovane.

La difesa del “palo” e i prossimi passaggi giudiziari – A rappresentare uno dei due diciottenni, accusato di aver fatto da “palo”, è l’avvocata Elena Patrucchi. «Lui non si era nemmeno reso conto della gravità della situazione, era lontano, così mi ha detto, e quando l’ha saputo si è spaventato, era sconvolto», spiega la legale, sottolineando come il suo assistito sia rimasto colpito dall’esito drammatico di quella che, nelle intenzioni dei ragazzi, sarebbe dovuta essere una “bravata”. «Quando ha saputo della gravità della situazione, delle condizioni del ragazzo, si è spaventato», insiste. L’avvocata si augura che «per il futuro lui sappia fare esperienza di questi giorni in carcere e che possa poi esprimere in modo diverso quello che è, i suoi sentimenti». Intanto, la procura ordinaria e quella per i minorenni, con il pubblico ministero Andrea Zanoncelli, hanno chiuso la prima fase delle indagini e attendono gli interrogatori di garanzia per delineare meglio i ruoli di ciascuno. Sarà in quella sede che i cinque ragazzi, ripresi dalle telecamere mentre si accaniscono sul corpo della vittima, potranno dare la loro versione dei fatti davanti al gip.

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