Oscar 2019 all’insegna del “black power”: ecco i vincitori

di Gaetano Bencivenga

Andata in archivio, anche, la 91esima edizione dei premi Oscar, la prima senza un presentatore ufficiale, ma con tanta musica targata The Queen al proprio interno, e, soprattutto, quella contrassegnata dal verdetto più ecumenico degli ultimi anni. A vincere il titolo di miglior film è stato il sorprendente “Green Book”, buddy movie, a tratti esilarante, diretto dall’onesto mestierante della commedia yankee Peter Farrelly. In realtà, a ben pensarci la storia dell’amicizia, improbabile ma per questo motivo autentica, tra un artista buttafuori (Viggo Mortensen) e un jazzista gay (Mahershala Ali) pronti a sfidare insieme i pregiudizi razziali e sessuali nell’America dei Cinquanta, aveva tutte le carte in regola per ergersi a simbolo, anche politico, della lotta anti-Trump da parte del gotha dell’establishment hollywoodiano, che è proseguita a vele spiegate dal palco più importante della Settima Arte planetaria.

Alla pellicola di Farrelly sono stati attribuiti altri due Academy Award per la sceneggiatura originale e l’attore non protagonista Mahershala Ali, al suo secondo Oscar personale nella medesima categoria, al quale è spettato il ruolo di apripista in una Notte delle Stelle dominata dagli artisti afroamericani. A partire dal cinecomic “Black Panther”, primo titolo del genere a essere nominato tra i migliori lungometraggi, che ha portato a casa gli allori per la colonna sonora, i costumi e la scenografia, tutte creazioni di origine, rigorosamente, “black”. Per continuare con la migliore attrice non protagonista, la Regina King del commovente “Se la strada potesse parlare” di Barry Jenkins, e la sceneggiatura non originale, che, finalmente, ha riconosciuto il talento immenso del sempreverde Spike Lee, autore del riuscitissimo “BlacKKKlansman”. E Spike Lee, come da previsione, non ha deluso le aspettative e dal pulpito ha pronunciato il discorso maggiormente politico della serata, auspicando la riscossa della democrazia vera in vista delle presidenziali del 2020 ed esortando i connazionali a “fare la cosa giusta”.

Altri trofei dal valore altamente simbolico sono stati quelli consegnati ad Alfonso Cuaròn, che ha fatto bis nella categoria del miglior regista, letteralmente, appannaggio dei messicani negli ultimi cinque anni. Ma Cuaròn non si è accontentato di questo prestigiosissimo riconoscimento, ritornando, infatti, sul palco per altre due volte grazie a “Roma”, il titolo più intimo e personale della sua carriera, per ritirare le statuette per la fotografia e il film straniero, prima volta assoluta del Messico in questa categoria. Un monito, non casuale e ben al di là del grande valore cinematografico dell’opera, al solito Donald Trump ad abbandonare l’idea di ergere muri e creare dannose inimicizie. Last but not least, gli allori per i migliori attori protagonisti, gli unici, forse, sfuggiti, alla logica della rivendicazione dei diritti. Tra gli uomini ha prevalso l’americano di origine egiziana Rami Malek, indovinatissimo alter ego della rockstar Freddy Mercury in “Bohemian Rhapsody” di Bryan Singer, indiscusso blockbuster della stagione, che ha guadagnato, in totale, il maggior numero di statuette (4), anche se non considerate tra le più “pesanti” (montaggio, sonoro e montaggio sonoro), escluso ovviamente quella finita nelle mani di Malek, a dimostrazione del fatto che un titolo asso pigliatutto della serata non c’è, effettivamente, stato. Tra le donne, invece, è avvenuta la scelta maggiormente inattesa.

La povera Glenn Close ha dovuto assistere, per la settima volta, allo spettacolo di un’altra contendente salita sul palco a ritirare una statuetta che le spetterebbe di diritto per il lungo, glorioso e onorato curriculum di icona potente e trasgressiva. Questa volta, la fortuna è toccata alla britannica Olivia Colman, brava ma non indimenticabile regina Anna del Regno Unito nello storico “La favorita” di Yorgos Lanthimos. Un premio di consolazione, però, alla pellicola diretta dal greco lo si doveva pur dare, dato il ragguardevole bottino iniziale di 10 candidature. Altri delusi dal verdetto Bradley Coooper e Lady Gaga, accontentatisi del solo Academy Award per la canzone “Shallow”, ma protagonisti di una performance al fulmicotone, alla faccia di un’incredula Irina Shayk, trattata un po’ come il terzo incomodo. Nell’assoluta mancanza di nominati italiani, gioiamo per l’alloro conseguito da “Spiderman: un nuovo universo” di Ramsay, Persichetti Jr., Rontham, miglior lungometraggio d’animazione a cui ha collaborato, tra gli altri, la fumettista Sara Pichelli.

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