Cannes, il “Dogman” di Garrone premiato come miglior attore

di Gaetano Bencivenga

La 71ma edizione del Festival di Cannes, l’evento cinematografico di maggior glamour del pianeta, dopo la Notte delle Stelle di Hollywood, si è conclusa con un’incoraggiante affermazione per i nostri colori. All’Italia non è andata la Palma d’Oro, ovvero il riconoscimento di miglior film della rassegna, ma due premi di sicuro valore. Il miglior attore della rassegna è stato, infatti, decretato l’esile Marcello Fonte, protagonista indiscusso del bel film di Matteo Garrone “Dogman”. Girato tra il Lazio e la Campania, il lungometraggio si ispira liberamente alle vicende drammatiche del “Canaro” della Magliana, che un trentennio fa sconvolse la cronaca nazionale. L’emozionatissimo Fonte, accolto sull’enorme palco da Roberto Benigni, ha ricordato le sue umili origini e, soprattutto, le notti trascorse ad ascoltare il rumore della pioggia battente sulle lamiere della propria dimora e a sognare che quel fragore si trasformasse in applausi. Un sogno, evidentemente, diventato realtà.

Un’altra bella soddisfazione se l’è tolta la regista Alice Rohrwacher, che grazie al lirico “Lazzaro felice” si è trovata, nuovamente, a quattro anni di distanza dal Gran Premio conquistato per “Le meraviglie”, a festeggiare un alloro alla sua sceneggiatura, ex aequo con l’iraniano, assente poiché recluso in patria, Jafar Panahi, autore dell’apprezzato “Three Faces”. Incredula, la Rohrwacher ci ha tenuto a omaggiare il coraggio di una giuria, capeggiata dall’iconica Cate Blanchett e quasi completamente al femminile, per aver menzionato una sceneggiatura “bislacca” ma indubbiamente personale. In effetti, i giurati, quest’anno, si sono rivelati, contro le previsioni della vigilia che temevano il rigurgito femminista nella famigerata stagione del movimento di protesta “metoo”, molto equilibrati segnalando nel Palmares, davvero, i migliori titoli della rassegna. A cominciare dalla Palma d’Oro andata, meritatamente, nelle mani del giapponese Hirokazu Kore-eda, che nel curioso “Un affare di famiglia” ha l’ardire di presentare una realtà nipponica, ormai, non molto diversa dagli altri paesi del mondo con l’avverarsi di tanti casi di incipiente indigenza sociale, risolta da un’arte di arrangiarsi simile a quella dei contesti più poveri del mondo.

Forte emozione ha provocato, anche, la consegna del Gran Premio della Giuria assegnato alla black tragedy “Blackkklansman” del redivivo Spike Lee, tornato ad alti livelli tecnici e tematici e pronto a mettere in guardia l’umanità sui pericoli derivanti dal nuovo corso della Storia. Premio della Giuria, con ampia convergenza, all’affresco “Capharnaum” della libanese Nadine Labaki, presentatasi sul palco con il piccolo e sorprendente Zain Al Rafeea protagonista della sua epopea siriana, che non concede sconti alla sofferenza ma che paga anche un doveroso tributo alla speranza.

Miglior attrice la timida kirghisa Smala Yeslyamova, profuga alla ricerca di una collocazione nella controversa Russia di Putin in “Ayka” di Sergey Dvortsevoy, laddove miglior regista, il talentuoso polacco, già Premio Oscar per “Ida”, Pawel Pawlikowski, che, nel solito sfolgorante bianco e nero, racconta un’appassionata love story ai tempi della Guerra Fredda” nel suo “Cold War”. Un tributo, e non poteva mancare, è stato dedicato al maestro transalpino Jean Luc Godard, che, a dispetto dei suoi ottanta e passa, continua a propugnare l’idea di cinema libero e sperimentale, riaffermata nell’ultimo lavoro “Livre du image”, beccandosi una Palma d’Oro speciale e un complimento da parte della presidentessa Blanchett, pronta a rimembrare quanto “Jean Luc non abbia mai smesso di sfidare il linguaggio del cinema e per questo non gli saremo mai abbastanza grati”.

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