Guè Pequeno e Marracash: “Il nostro rap è cosa seria”

di Emma Zampella

Guè Pequeno e Marracash sono i volti protagonisti della cover story di Rolling Stones perchè assicurano che la loro musica “é cosa seria”. I rapper, che cantano quanto il “sistema Italia” faccia acqua da tutte le parti, si sono imposti sulla scena musicale con l’inedito “Santeria” da tre settimane ai vertici delle classiche.

Con il loro brano che li vede spalla a spalle, i due artisti hanno unito le forze per combattere il lato oscuro della scena rap italiana e, considerando il grosso successo di pubblico, sono in molti a volerli seguire.

Su Rolling Stone i due cantanti mettono ben in chiaro cosa li distingue e giudicano il rap argomento serissimo: “Noi abbiamo iniziato a suonare in un’epoca in cui non c’era neppure il sogno di farci i soldi con il rap, e il rap dovevi amarlo fino al midollo, con tutto te stesso” racconta Marra.

“Gente come Fabri Fibra, gli ex Co’Sang, si vivono la musica con una visceralità, con una sofferenza che i ragazzi di oggi non hanno. La maggior parte di loro pensa solo ai soldi. Io, quando facevo musica, volevo essere libero. Alla musica chiedevo di liberarmi dal lavoro. Avevo anche la smania di far soldi, chiaro, di prendermi una rivincita sulla scuola, sul quartiere, sui miei. Ma non volevo essere Laura Pausini. Invece questi sono disposti ad assoggettarsi pur di essere famosi. Sono passati per le nostre etichette indipendenti, per i nostri featuring. Li abbiamo cresciuti noi” dice ancora il cantante.

Niente politica in “Santeria”, se si esclude una rima su Renzi: Mi ha sempre dato fastidio che, per essere considerato dai giornalisti, sia importante parlare di politica. Io ho puntato tutto sulla sincerità, mi piacciono le liriche esplicite. Se mi mettessi a fare l’attivista non sarei credibile” racconta Pequeno e Marra gli fa eco: “In questo disco non si parla di politica, un po’ perché ci è venuto spontaneo non farlo, e perché siamo nauseati da chi strumentalizza l’argomento. A me può succedere, citando Nas, di avvicinarmi più alla cosiddetta hood politics, cioè raccontare il quartiere e la strada”.

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