Libia, Filippo e Gino tornano in Italia. Dubbi su modalità liberazione

di Gabriella Ronza

Roma – E’ atterrato allo scalo romano di Ciampino, intorno alle 5 di domenica mattina, l’aereo con a bordo Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, i due tecnici della Bonatti, rapiti lo scorso luglio insieme ad altri due colleghi che sono stati uccisi, Salvatore Failla e Fausto Piano. Ad attenderli, oltre ai loro familiari, c’era il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni.

Gli ex ostaggi sono apparsi provati ma sollevati. Sono stati portati alla caserma dei carabinieri del Ros per essere interrogati dal pool di inquirenti coordinati dal pm Sergio Colaiocco, titolare delle indagini sui fatti avvenuti in Libia. L’audizione rimarrà secretata. Prima di ritornare in patria, gli ex ostaggi erano stati interrogati dalle forze libiche all’aeroporto Mitiga di Tripoli per circa 45 minuti. Erano poi comparsi accanto al ministro degli Esteri del governo libico di Tripoli, cioè quello non riconosciuto internazionalmente, Ali Abu Zakouk.

I due tecnici scesi dall’aereo e accompagnati da Gentiloni stavano ancora percorrendo i pochi metri verso la palazzina di rappresentanza del 31 stormo, quando dalla soglia si sono precipitati ad abbracciarli i parenti. Prima Ema con i figli Gino e Yasmine e due nipoti si sono stretti piangendo e gridando di gioia a Pollicardo; subito dopo la stessa scena si è ripetuta da parte di Maria Concetta Arena con i figli Cristina e Gianluca e la nuora Loana nei confronti di Calcagno.

La modalità di liberazione dei tue tecnici, tuttavia, resta abbastanza oscura: non è chiaro se si siano liberati da soli o se in seguito ad un blitz di milizie locali di Sabrata contro un gruppo jihadista. Inoltre, numerosi sono gli interrogativi sulla dinamica che ha portato alla fine della loro prigionia, come anche alla tragica morte di Failla e Piano.

Intanto, Rosalba, moglie di Salvatore Failla, una delle due vittime, accusa, attraverso il suo legale, il governo: “Lo Stato italiano ha fallito: la liberazione dei due ostaggi è stata pagata con il sangue di mio marito”. “Se lo Stato non è stato capace di riportarmelo vivo – aggiunge – ora almeno non lo faccia toccare in Libia, non voglio che l’autopsia venga fatta lì”.

La donna prosegue affermando che la salma “la stanno trattando come carne da macello. Nessuno, tra questi che stanno esultando per la liberazione ha avuto il coraggio di telefonarmi”. La vedova, attraverso l’avvocato Caroleo Grimaldi, ribadisce: “Voglio che il corpo rientri integro e che l’autopsia venga fatta in Italia”.

Scrivici su Whatsapp
Benvenuto in Pupia. Come possiamo aiutarti?
RedazioneWhatsappWhatsApp
Condividi con un amico