Appalti e camorra, Caterino: “Gli imprenditori sapevano già come comportarsi”

di Nicola Rosselli

Casapesenna – “Voglio, infine, aggiungere che, come ho già detto in precedenti interrogatori, noi avevamo questo rapporto con gli imprenditori in maniera del tutto serena e tranquilla, nel senso che non abbiamo mai avuto bisogno di ricorrere a mezzi intimidatori per convincere gli imprenditori a pagare, dal momento che questi ultimi sapevano, ormai in maniera consolidata, come bisognava comportarsi con noi ogni volta che prendevano un lavoro”.

Massimiliano Caterino, detto “‘o mastrone”, plenipotenziario del clan Zagaria per i rapporti con gli imprenditori di Casapesenna, oggi collaboratore di giustizia, è orgoglioso del sistema creato per assicurare un rapporto proficuo tra clan ed imprese, un sistema che, come egli stesso dice ai magistrati, è invidiato dagli altri clan, in particolare dagli Schiavone.

Il primo elemento di assoluto rilievo è rappresentato dalla circostanza per cui Caterino esclude che tali imprenditori fossero vittime di estorsione; descrive piuttosto il rapporto di reciprocità dagli stessi instaurato con il potente boss di Casapesenna. In un successivo interrogatorio del 141uglio 2014 “‘o mastrone” spiega: “Dopo aver preso il lavoro (grazie all’intervento del clan, ndr), come facevano tutti gli imprenditori che avevano rapporti con il gruppo Zagaria, egli (l’imprenditore) si presentava spontaneamente a noi e ci diceva di aver preso un lavoro …… Se questo lavoro ricadeva sul territorio di nostra competenza, la tangente egli la versava a noi direttamente. Se invece il cantiere si trovava su di un territorio ove era egemone un altro clan, noi provvedevamo a prendere contatti con questo clan per garantirgli la tranquillità. Egli ci versava, quindi, il 5% del lavoro di cui però una parte andava al clan del territorio ove insisteva il cantiere. Se questo territorio ricadeva sulla egemonia, in generale, del clan dei casalesi, noi non riversavamo nulla alla famiglia Schiavone o Bidognetti o anche Iovine, ma provvedevamo a mettere tutto in cassa e poi dividere nella cassa comune una volta al mese. Il servizio di cui ho parlato, invece, si riferiva ai lavori che egli (l’imprenditore) prendeva al di fuori del territorio dei casalesi, per esempio sul napoletano”.

Insomma, non un pizzo, una tangente, ma, semplicemente, il costo da pagare per vedersi attribuire il lavoro e, soprattutto, di essere certo che avrebbe lavorato e continuato a lavorare grazie all’impegno del clan.

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