Immigrazione africana oggi VS emigrazione italiana ieri: le differenze

di Gabriella Ronza

È probabilmente uno degli argomenti più abusati per argomentare le motivazioni che portano ad accettare o meno l’immigrazione africana a cui la popolazione italiana sta assistendo da un paio di anni: il paragone tra questo tipo di migrazione e quella nostrana avvenuta tra ‘800-‘900 verso le coste americane.

È davvero possibile confrontare questi due avvenimenti? Che cosa è cambiato nel modo di “migrare” e in che cosa gli africani di oggi e gli italiani di ieri sono dissimili?

I media e molti partiti politici di opposizione tendono a glissare l’argomento, concentrandosi perlopiù sulle differenze. I numeri sono oggettivamente diversi: tra il 1860 e il 1885 sono state registrate più di 10 milioni di partenze dall’Italia (molti dei migranti partirono anche alla volta del Nord Africa), mentre il numero degli immigrati africani che arrivano tuttora in Europa non è quantificabile, poiché il flusso non è concluso. Le stime approssimative tendono, però, a sottolineare che si giungerà sicuramente a 10 milioni (Nel 2014 gli immigrati in Italia, regolari e non, si attestavano a 5,5 milioni di unità).

La prima grande differenza è di ordine sociale: i nostri migranti partivano con l’aiuto di agenzie ufficiali e delle diplomazie, mentre oggi i clandestini sono alla mercé di veri e propri mercanti di esseri umani.

Sul retro dei passaporti dell’Italia ottocentesca si leggeva tra le avvertenze: “Gli italiani che emigrano negli Stati Uniti dell’America del Nord sono avvertiti che, per  leggi  vigenti  nell’Unione, è vietato lo sbarco ai delinquenti,  mentecatti, idioti,  indigenti,  agli  individui  affetti  da mali ributtanti o contagiosi […]. Qualora un immigrato così vincolato riesca a sbarcare […] è soggetto ad espulsione dal territorio della Repubblica. Le spese del di lui viaggio di ritorno sono poste a carico del proprietario della nave che lo trasportò”. Questa appare proprio come una dettagliata testimonianza storica del modo in cui venivano gestiti i traffici migratori e di come gli Stati Uniti avvertissero e, di fatto, controllassero adeguatamente i nuovi arrivati.

Un’altra grande differenza riguarda il contesto: l’emigrazione italiana (compresa quella del dopoguerra) è avvenuta sostanzialmente in un’epoca caratterizzata da frontiere aperte. L’immigrazione in Italia ha avuto inizio e si è sviluppata in un’epoca di frontiere chiuse (e ciò spiega anche l’elevato numero di irregolari).

Secondo il saggista Paolo Sidoni, nel suo reportage “Immigrazioni e paralleli impossibili”, si devono evitare analogie infondate. Scrive: “La razionalità necessaria a qualsiasi ricerca o interpretazione storica viene quindi messa al bando per fare posto all’arbitrio e alla forza di suggestione propria all’analogia”.

Un modo implicito per dirci che la storia non è sempre “maestra di vita”, che le due situazioni sono completamente diverse e che non si deve incorrere nell’errore di una piena indulgenza in quanto nostalgicamente si ripensa alle imprese dei nostri antenati.

Il mondo è cambiato, così come il modo in cui esso si approccia alla migrazione. D’altra parte, probabilmente l’unica vera analogia tra queste due tragiche pagine della storia è relativa ai sentimenti e alle speranze umane. Gli immigrati di oggi condividono con i nostri avi il senso di impotenza di fronte ad un mondo degradato (per la guerra e per la povertà) che si riduce ad una sola scelta la “fuga”, paradossalmente a volte non cercata, verso un luogo che si immagina più roseo.

A ciò si aggiunge, l’essere vittime di sentimenti di xenofobia. Allora, i nostri progenitori emigranti venivano definiti dagli americani “piccoli, puzzolenti e ladri”. Numerosissime fonti testimoniano processi nati “per sospetto” ai danni di italiani, il più delle volte (anche dopo anni) ritenuti infine innocenti.

A testimonianza, di seguito un testo, circolante sul web, tratto da una “Relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani, ottobre 1912” (N.d.r. Molti studiosi ritengono il testo non del tutto autentico anche se verosimile, la redazione si astiene da ricerche di ordine filologico e conferma quindi il dubbio sull’autenticità):

“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali”. 

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