Trattativa Stato-mafia, Grasso a Palermo: “Qui per verità”

di Redazione

 Palermo. Pietro Grasso è tornato nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo, dove fu giudice del maxi processo.

Il presidente del Senato vi è tornato in qualità di testimone nel processo sulla trattativa Stato-mafia. “Sono qui per venire incontro alle esigenze di giustizia e verità”, ha detto l’ex procuratore antimafia rispondendo al ringraziamento che il presidente della Corte d’assise, Alfredo Montalto, gli ha rivolto per aver rinunciato alle prerogative di farsi esaminare a Palazzo Madama. A porre le domande al “teste” Grasso è stato il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo.

Grasso è stato chiamato a testimoniare, si legge nell’articolato di prova, “in ordine alle richieste provenienti dall’ex ministro Nicola Mancino aventi ad oggetto l’andamento delle indagini sulla cosiddetta trattativa, l’eventuale avocazione delle stesse e o il coordinamento investigativo delle Procure interessate”.

La vicenda è quella venuta fuori dalle intercettazioni effettuate dai pm sulle utenze telefoniche di Mancino che, nel processo, è accusato di falsa testimonianza. Dalle indagini emersero le sollecitazioni fatte dall’ex politico Dc a Grasso, all’epoca capo della Dna, direttamente e per il tramite dell’ex consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio, perché esercitasse i poteri di coordinamento, riconosciuti alla procura nazionale antimafia, in merito alle inchieste condotte dai tre uffici sul presunto patto Stato-mafia.

“Avevo incontrato Mancino durante gli auguri di Natale al presidente della Repubblica Napolitano a dicembre del 2011. Fu un incontro veloce davanti al guardaroba al Quirinale – ha raccontato Grasso –. In quella circostanza Mancino mi apostrofò dicendo in sostanza che si sentiva quasi perseguitato, tormentato e che c’erano differenze di valutazione di suoi comportamenti da parte di diverse Procure”.

Il riferimento è alla diversa piega presa dalle inchieste delle tre procure – Firenze, Palermo e Caltanissetta – sul cosiddetto patto tra pezzi delle istituzioni e cosa nostra. “Mancino – ha spiegato il presidente del Senato – mi disse che il capo della Dna qualcosa avrebbe dovuto fare. Io risposi che l’unico modo per ridurre a unità le indagini era l’avocazione, ma che non c’erano i presupposti. E lui ribadì che comunque si poteva spingere verso un coordinamento delle attività investigative”.

Grasso ha parlato anche del suo incontro con il procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani, il 19 aprile 2012. L’allora procuratore nazionale antimafia ha spiegato che in quella riunione si parlò “delle indagini sulla trattativa e dei problemi derivati dalla necessità di un’unità di indirizzo”.

“Sul tavolo dell’incontro – ha detto Grasso – c’era anche una lettera del segretario generale del Quirinale Donato Marra al procuratore generale a cui era stata allegata una missiva del senatore Mancino alla presidenza della Repubblica”.

La lettera di Mancino non venne letta nel corso dell’incontro, ma si accennò al fatto che conteneva le “lamentele” dell’ex senatore sul coordinamento delle indagini sulla trattativa. A Grasso è stato anche domandato se nel corso della riunione qualcuno gli avesse chiesto esplicitamente l’avocazione dell’indagine e il presidente del Senato ha risposto categoricamente: “No”. Poi ha rivendicato: “Giusto per chiarire: mi si deve dare atto che non ci fu nessuna interferenza da parte del Procuratore nazionale antimafia nei confronti delle procure che indagavano a vario titolo sulle stragi”.

Di Mancino, Grasso ha raccontato di aver parlato anche con Loris D’Ambrosio, morto nel luglio 2012. “Incontrai il consigliere giuridico del capo dello Stato durante un incontro con gli studenti alla Luiss di Roma. E ricordo che mi parlò delle continue lamentele ricevute dal senatore Mancino che si sentiva perseguitato per l’inchiesta sulla trattativa. D’Ambrosio si lamentava che era oggetto di telefonate di Mancino. Sapevo benissimo qual era il problema del senatore Mancino. Non c’era necessità di approfondire”.

A conclusione delle domande della procura, Grasso ha voluto aggiungere: “Pensavo che sarei stato citato non solo come teste ma come persona offesa visto che qualcuno, come il pentito Brusca, aveva detto che ero tra quelli a cui dare un colpetto per ravvivare la fiamma della trattativa”.

Il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, infatti, aveva raccontato di un progetto di attentato a Grasso proprio per dare nuovo input al “dialogo” con pezzi delle istituzioni giunto a una fase di stallo. Il procuratore Messineo ha risposto: “Qui non stiamo celebrando un processo per strage o per mancata strage, ma per violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato”.

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