E’ morto Nelson Mandela, eroe d’Africa: aveva 95 anni

di Redazione

Nelson MandelaSe n’è andato alla veneranda età di 95 anni l’eroe che ha sconfitto l’apartheid in Sudafrica, Nelson Mandela.

Il presidente sudafricano Jacob Zuma, vestito di nero, il volto tirato, ha annunciato in un discorso televisivo la scomparsa di “Madiba” per il quale “il mondo intero avrà grande gratitudine per sempre”. Si è spento “serenamente” nella sua casa di Johannesburg, ha raccontato Zuma in tv.

Il lutto nazionale, le bandiere a mezz’asta, i funerali di Stato, gli onori che i sudafricani si apprestano a tributare a Mandela, le parole addolorate dei leader del mondo vanno, una volta tanto, oltre i riti di circostanza per l’uomo che dopo ventisette anni passati nelle galere del regime segregazionista bianco non ha mai pronunciato la parola vendetta. E ha fatto della riconciliazione, forse non riuscita fino in fondo ma caparbiamente voluta e cercata, il filo rosso della sua vita.Icona di un intero popolo – che ha seguito con il fiato sospeso i suoi ultimi mesi, punteggiati da quattro ricoveri in ospedale dovuti a infezioni polmonari, conseguenze della turbercolosi contratta nei lunghi anni di prigione a Robben Island – Madiba ha subito raccolto stanotte l’omaggio della gente. Una folla – fra cui tanti giovani – di persone si è radunata dopo l’annuncio di Zuma dinanzi alla sua casa: molti in lacrime, qualcuno sorridendo nel ricordo di un uomo venerato ormai nel continente africano quasi come un santo.

Era nato il 18 luglio 1918 nel villaggio di Mvezo. Il suo nome, Rolihlahla, vuol dire rompiscatole, “colui che spezza i rami”. Sarà un’insegnante a ribattezzarlo Nelson. Rimasto orfano di padre a 11 anni, viene preso sotto l’ala del capo Jongintaba. La madre lo spinge a studiare. A 21 anni entra all’università per neri di Fort Hare, fondata da missionari scozzesi. Studia inglese, antropologia e legge. Adora ballare. Quando però il capo villaggio decide per lui nozze combinate, scappa con un amico a Johannesburg, procurandosi i soldi del viaggio vendendo un paio di mucche del capo. Vive nella township di Alexandra, studia a lume di candela. Nel ‘43 si laurea per corrispondenza a Fort Hare, conosce Evelyn. Si sposano nel ‘44. Nelson ha 26 anni. Studia da avvocato alla Wits, unico nero della classe. Abita a Soweto.

Negli anni successivi il Sudafrica dei bianchi e del nuovo Partito Nazionale costruisce i muri dell’apartheid: no ai matrimoni misti, sì alla divisione razziale (Population Act) e alla segregazione dei neri in zone apposite (Group Areas Act). Mandela è eletto capo dei giovani dell’African National Congress (Anc). Con l’amico Oliver Tambo apre uno studio legale. Primo vero arresto nel 1956, in seguito alla Freedom Charter: detenuto (in attesa di processo) con altri 155 al Vecchio Forte. Esce dopo due settimane e trova la casa vuota: Evelyn, che non sopporta il suo impegno politico (e la latitanza familiare), se n’è andata con i figli (e le tende). Nella sua vita entra Winnie, che lui ha intravisto alla fermata dell’autobus.

Dopo il massacro di Sharpeville (1960) dove la polizia bianca uccide 60 neri, Nelson è imprigionato per 5 mesi con l’accusa di comunismo. Assolto, si dà alla clandestinità. Diventa “la primula nera”, fonda “la Lancia della Nazione”, il braccio militare dell’Anc che si propone il sabotaggio di strutture governative senza violenze contro i civili. Lo arrestano in auto il 5 agosto 1962. In tribunale pronuncia un primo discorso che passerà alla storia: “Nella mia vita mi sono battuto contro la dominazione bianca, e mi sono battuto contro la dominazione nera. Ho creduto nell’ideale di una società democratica e libera, in cui tutti vivano insieme in armonia e con uguali opportunità. È un ideale a cui spero di dedicare la vita. Ma se necessario è un ideale per cui sono pronto a morire”.

Dal 1964 sconta l’ergastolo a Robben Island. Sul braccio il tatuaggio con il numero di prigioniero: 466/64. Gli fanno spaccare pietre nella luce accecante della cava. Fuori, gli anni ’60 sono il trionfo dell’apartheid. Dentro, Mandela studia la lingua del “nemico”, l’afrikaans, fa amicizia con i secondini, scrive un’autobiografia. Nel 1976 gli è concesso di coltivare un piccolo orto di pomodori, che più tardi rimpiangerà di aver curato più delle sue figlie. Quell’anno la rivolta di Soweto segna un cambio di marcia nella lotta al regime bianco, mentre Nelson rifiuta la libertà offertagli dal governo in cambio dell’autoesilio nella regione natale. Passeranno ancora sei anni prima che il leader dell’Anc lasci Robben Island per una prigione sulla terraferma. A poco a poco cambia il clima internazionale.

Nel 1985 il presidente P.W. Botha offre a Mandela la libertà a condizione che rigetti la violenza. La risposta è in una lettera che la figlia Zindzi legge al popolo dell’Anc nello stadio di Soweto: “Solo gli uomini liberi possono negoziare- scrive Mandela- La mia libertà e la vostra non possono essere separate. Ritorna l’11 febbraio 1990: libero, senza condizioni, dopo più di 10 mila giorni di prigionia. Comincia la sua terza vita: Mandela il riconciliatore. “I bianchi sono nostri concittadini, chi rifiuta l’apartheid sarà accolto nella lotta comune per un Sudafrica democratico e non razziale”.

Nel ‘92 si separa da Winnie, la donna più amata l’ha tradito con altri, è diventata un’estranea. Nel ’93, in tandem con De Klerk, arriva il Nobel per la Pace. Ma in Sudafrica sono giorni di tensione: bianchi contro neri, zulu contro xhosa, voci di colpo di stato, l’omicidio di Chris Hani, icona dell’Anc. Mandela impone la sua linea: niente vendette, “siamo una forza disciplinata per la pace”. Dirà l’amico arcivescovo Desmond Tutu: “Senza di lui non ce l’avremmo fatta”.

Il 27 aprile 1994, 23 milioni di sudafricani in coda ai seggi. Mandela presidente. Quel giorno, “una nazione è rinata”. Nel 1998, il giorno dell’80esimo compleanno, Nelson sposa Graça, vedova del presidente del Mozambico Samora Machel, e con lei va a vivere nel quartiere residenziale di Houghton, un tempo riservato ai bianchi, in una casa dove ospita gli oltre venti nipoti e bisnipoti. L’anno dopo, a fine mandato, lascia la politica. Nel 2004 si ritira a vita privata: “Non cercatemi – dice ai sudafricani – vi cerco io”.

Con i successori Thabo Mbeki e Jacob Zuma, che lui non ha scelto ma subìto, il Sudafrica è entrato nell’era della disillusione e della delusione. Compare sempre più di rado in pubblico e ogni volta appare più fragile e debole, come nella fugace apparizione a Johannesburg alla finale dei Mondiali di calcio, nel luglio 2010. Negli ultimi anni ha passato la maggior parte del tempo a Qunu, il villaggio della sua famiglia. Dopo l’ultimo ricovero in ospedale si era trasferito nella sua abitazione di Johannesburg dove ha trascorso gli ultimi mesi di vita, circondato dall’affetto della famiglia e di un intero Paese.

Poco dopo l’annuncio della morte ha parlato Barack Obama, turbato anche lui, in TV. “Abbiamo perso uno degli uomini più coraggiosi e influenti dell’umanità”, ha detto il primo presidente nero degli Stati Uniti, forse pensando che la sua prima volta è stata resa possibile anche dalla lotta di Mandela. “Oggi è tornato a casa”, ha concluso. “Una grande luce si è spenta nel mondo, è stato un eroe del nostro tempo”, sono state le parole del premier britannico David Cameron, tra i primi a inchinarsi di fronte alla morte del leader antiapartheid. Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon lo ha definito “un gigante per la giustizia e fonte di ispirazione per l’umanità”. Il presidente francese Francois Hollande lo ha salutato come un “magnifico combattente” e un “eccezionale protagonista della resistenza contro l’apartheid”. “Tutti noi viviamo in un mondo migliore grazie alla vita che Madiba ha vissuto”, ha riassunto Bill Clinton, che negli anni della sua presidenza gli fu amico e alleato.

E in Sudafrica ha parlato l’ultimo presidente bianco, Frederik De Klerk, che a Mandela restituì la libertà e che poi con lui ha diviso il Nobel per la Pace. “Grazie a Mandela la riconciliazione in Sudafrica è stata possibile”, gli ha reso onore in un’intervista telefonica alla Cnn. I vecchi compagni dell’African National Congress – il suo partito – lo hanno a loro volta ricordato così: “Un colosso, un esempio di umiltà, uguaglianza, giustizia, pace e speranza per milioni” di uomini e donne. “Abbiamo imparato a vivere insieme e a credere in noi stessi”, ha fatto eco un altro Nobel per la pace sudafricano, il vescovo anglicano nero Desmond Tutu.

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