Mostra di Domenico Napolitano all’ex Macello

di Redazione

 AVERSA. Si inaugura sabato 24 novembre, alle 18.30, la mostra “Genius Loci, una personale di Domenico Napolitano, alla sua prima volta nella città normanna, voluta dall’Assessorato alla Cultura e Istruzione.

Ospitato all’Ex Macello-Casa della Cultura, questo giovane eppur affermato artista casertano, la cui ricca biografia lo vede passare attraverso molteplici esperienze artistiche e numerose esposizioni, personali e collettive, in giro per l’Europa, presenterà la sua ultima ‘fatica’- quindici dipinti di grandi dimensioni – che costituisce un ulteriore approfondimento del percorso di senso che cerca risposte nell’intricata matassa dei problemi dell’uomo contemporaneo, con uno sguardo puntato sensibilmente al nostro territorio. La mostra sarà presentata dal critico Massimo Sgroi, curatore del Museo d’Arte Contemporanea di Caserta. Interverrà – con i rinomati prodotti tipici – la pasticceria Enrico Mungiguerra.

Il connubio tra realtà esterna e rielaborazione interiore che Domenico Napolitano pone in essere si rende attraverso tratti pittorici che rimodulano insieme il vissuto esteriore, la propria personale prassi biografica (vedi l’innesto di appunti, commenti, riverberi di brani fotografici sotto manti di pittura) e l’aspirazione verso vie di fuga che mentre esplorano percorsi altri, risultano – agli occhi dello spettatore – pesanti macigni cui l’andare è greve: sommergibili, dirigibili, ghiacciai che si dissolvono in liquido quasi organico, gabbie che preludono alla presente costrizione di un tempo che non sboccia in romantica realizzazione, ma che implode nel cuore di un uomo assordantemente assente in queste tele.

La ricerca cromatica che riverbera, pur nel suo sofferto approfondimento, nella consumazione della tela che sfuma oltre i contorni della cornice, nel logorio delle gocce di colore sovrasparse che trasmettono l’erosione del kronos, sembra librarsi – al termine di nuances disgiunte dalla sequenza sin qui partecipata, ove domina il bianco – in un tunnel oltre cui si intravede un nucleo vitale, un embrione che schiude alla speranza che un altro mondo è possibile.

Una metafora dai forti connotati mediterranei, trova – pur nella fatica dell’andare – la strada, elemento riproponente in molte tele del pittore di Maddaloni. Esiste una preistoria concettuale di questo ciclo che, oltre a proseguire la ricerca sul senso di consumazione delle cose, degli oggetti, della vita, passa per le esperienze di contaminazione artistica che ha visto il Nostro, indagare il mondo attraverso l’obiettivo fotografico o della telecamera, con l’intento di trasformare il brutto delle nostre periferie e riuscire a cogliervi germi di positività.

Ritroviamo così nelle cromature di alcuni quadri, il riverbero dell’abbandonato grigiore delle superstrade proiettato nei rossori del tramonto, denunciando tutta l’incongruenza della vita, tutta la nostra misconoscenza, in un discorso surreale che passa per il reale, richiamando così la forza trasfigurante della poesia baudleriana. Si ha, talvolta, una resa didascalica per cui lo spettatore precipita nel quadro, diventa parte di esso, annullando lo spazio fisico tra la realtà e la tela, come se l’artista lasciasse aperto l’otturatore della sua pittura.

L’indagine oleografica interseca i percorsi di un meccanismo urbano che viaggia verso l’abbrutimento, attraversa cicli pittorici altalenanti nelle permeabilità cromatiche che cercavano uno spasmodico inseguimento del bello, pur nella decadenza del tessuto connettivo del vivere, per trasformarsi – in questo nuovo ciclo – in dimensione quasi fiabesca, dove per fiaba non si intende fuga dalla realtà, ma tentativo di trasfigurazione verso un altrove che non stravolge il reale né scade nel sogno, ma che, attraverso una dimensione quasi onirica, scava nel concetto di consumazione che il tempo impone alle cose, alla natura, al mondo.

La dimensione del vagabondo che costituisce la condizione dell’uomo contemporaneo– secondo S. Bauman – e che si fa verità a se stesso, e la mostruosità di spazi urbani riconvertiti, ma senza memoria, che ritroviamo ovunque, quasi in una forma di mondializzazione del vuoto che – come afferma l’antropologo Marc Augè – costituiscono la forma del non-luogo, trovano cittadinanza nel fraseggio pittorico di Napolitano. Un’ indagine pittorica, fortemente, volutamente pittorica, quella di Napolitano, assolutamente aliena dai percorsi fatui di un’arte proiettata verso la volontà di stupire per le stranezze proposte. Ma davvero la pittura non riesce a dire più nulla all’uomo d’oggi formato digitale e tronfio di immagini stupefacenti, se non attraverso una carrellata di funambolismi funzionali al sistema fagocitante del circuito artistico?

Ciò che Sgarbi afferma della Storia dell’Arte italiana che non è una storia da cavalletto di piccole dimensioni e pensieri limitati, ben si attaglia a Napolitano. Dinanzi alla ciotola dei colori, alla sferzante penetrazione della spatola o del pennello, si scioglie in tutta la sua drammaticità l’ego emozionato dell’artista figlio di questo tempo di crisi. In una liturgia laica del tempo, di un kronos che lacera e consuma, Napolitano indaga e approfondisce il senso della storia di cui è parte e lo ritraduce nella sua personale riconfigurazione artistica.

Rosaria Capone

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