Brigatista suicida, forse era pronta a collaborare

di Redazione

Diana Blefari MelazziROMA. La brigatista Diana Blefari Melazzi, condannata all’ergastolo per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi, si è tolta la vita nel carcere romano di Rebibbia nella serata di sabato.

Secondo alcune indiscrezioni era pronta a collaborare con la giustizia e il giorno stesso della sua morte avrebbe avuto un colloquio con degli investigatori.

La donna si trovava in una cella singolae si è uccisa impiccandosi con delle lenzuola annodate. “Una morte annunciata”, ha detto subito il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, che si batte per i diritti nelle carceri. “Aveva senso tenere in carcere una persona che stava così male?”. Perchè da tempo Blefari “schizofrenica e inabile psichicamente”, passava le sue giornate, come ricorda il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, “in completo isolamento, in una cella singola, per la maggior parte del tempo a letto e al buio rifiutando spesso cibo e medicine”, senza rapporti con altre detenute e operatrici volontarie.

Blefari dal 21 ottobre era arrivata dal carcere fiorentino di Sollicciano dopo essere passata anche nell’ospedale psichiatrico di Montelupo Fiorentino e nel penitenziario dell’Aquila. Doveva rispondere nei prossimi giorni, in particolare, alle domande del pm Erminio Amelio, su Massimo Papini, arrestato il 2 ottobre scorso dalla Digos. Papini, 34 anni, romano, era stato arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata delle Br-partito comunista combattente. Per gli investigatori sarebbe stato legato a Blefari e l’avrebbe accompagnata all’internet point dove la donna fece partire la rivendicazione dell’omicidio Biagi.

“Siamo sotto choc, abbiamo fatto tante battaglie, abbiamo cercato in tutti i modi di far riconoscere il profondo disagio di Blefari. Ora è troppo tardi”, ha detto il suo avvocato Caterina Calia, difensore, insieme con l’avvocato Valerio Spigarelli. Il legale ricorda le numerose perizie psichiatriche a cui era stata sottosposta la terrorista per verificare la sua capacità di stare in giudizio. Secondo la difesa, Blefari soffriva di una grave patologia psichica e più volte le stesse difese avevano sollecitato il riconoscimento di tale situazione. Ultimamente sia la Corte di Cassazione sia nei mesi scorsi il gup del tribunale di Roma, avevano respinto tali istanze. Nel 2008 la brigatista in un momento di particolare tensione emotiva aggredì un agente di polizia penitenziaria e il 23 novembre prossimo sarebbe dovuto cominciare il processo.

La sua morte arriva quando forse aveva deciso di svelare elementi ritenuti utili agli investigatori per far luce sugli omicidi D’Antona e Biagi e giungere alla individuazione di altri personaggi coinvolti nelle Nuove Brigate Rosse. Avrebbe potuto svelare molti punti oscuri dell’organizzazione, a cominciare dalle armi e dal nascondiglio dove sarebbero state celate, compresa la pistola usata per uccidere Biagi e D’Antona. Il pm Maria Cristina Palaia ha aperto un fascicolo senza indagati e ha disposto l’autopsia. La procura di Roma potrebbe riesaminare l’intero iter giudiziario della Blefari in considerazione della sua presunta patologia psichica, come emerso in questi anni dalle numerose richieste di consulenze.

Intanto il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, ha annunciato di aver “già avviato una puntuale e attenta inchiesta amministrativa che affiancherà quella giudiziaria” così da “fare immediatamente luce sull’accaduto”, sottolineando però che la detenuta era “in una situazione carceraria compatibile con le sue condizioni psicofisiche”.Anche il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Franco Ionta, che si è recato a Rebibbia, ha detto che la sistemazione della terrorista “era corretta”.

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