CASERTA. Come in un incubo, lurlo non fa rumore. Il dolore parla attraverso gli sguardi, dalla bocca aperta non esce suono; eppure è un grido di rabbia assordante quello de La corale dei nomi propri.
Nello spettacolo che sabato e domenica ha fatto il tutto esaurito al botteghino di OfficinaTeatro, il regista Michele Pagano conferma la sua arte visionaria e sensibile. Sei donne in carne e ossa, sei nomi propri che si incontrano in una corale; sei storie vere che si intrecciano, tra fasci di luce e bui profondi, in una sinfonia dolorosa e rabbiosa. Mi sento colpevole per il solo fatto di essere un maschio, ammette uno spettatore al termine della piece.
La corale dei nomi propri è un calcio nello stomaco, è la scarica elettrica del malamore, è lodore della carne viva che brucia, il lamento soffocato della bimba prostituta, lultimo respiro inciampato in un rantolo, la vita che pulsa nella pancia e il ricatto del padrone che dice: o il figlio o il lavoro. Storie tratte da testi, tra gli altri, di Dacia Maraini e Concita De Gregorio, da articoli di giornali e fatti di cronaca delle nostre terre. Michele Pagano, coadiuvato da Laura Rossetti, ha rivisitato i testi e ne ha tirato fuori un lavoro che quasi schiaffeggia lammutolito spettatore.
Bravissime le attrici che hanno vestito i panni della giornalista Anna Politkovskaja (Fulvia Castellano), della compagna di Ricasso, Dora Maar (Tonia Bosso), e ancora di Valentina (Caterina Di Matteo), di Franca (Carmen Mennella), di Aisha (Teresa Perretta) e di Dalia (Carmela Gilda Tomei).
Imperdibile la doppia replica: sabato ore 21, domenica ore 19. Per indignarsi dinanzi allorrore della violenza o, forse, più semplicemente, per riconoscere in ogni storia -, un po di ognuna di noi.
Dallestro e dalla passione di Michele Pagano, che ne cura anche la direzione artistica, Officinateatro è il tentativo (riuscito) di dare spazio allarte, alle libere espressioni teatrali. Un posto in cui larte si crea, si forma. Unofficina, appunto. E, infatti, Officinateatro è uno spazio ricavato da una vecchia fabbrica dimessa di San Leucio che oggi si presenta come una struttura indipendente di 90 posti. Uno spazio (s)componibile dove il palco diventa platea e viceversa, dove lo spettatore potrà vivere lo spettacolo da protagonista, trovandosi seduto ogni volta in un angolo diverso. Un luogo aperto che permette di sperimentare larte in ogni sua forma e in ogni suo genere senza obblighi e limiti di spazio.