Quando Aversa era la “culla” delle calzature

di Nicola Rosselli

 AVERSA. Fino ad una decina di anni fa, camminare nei vicoli compresi tra via Costantinopoli e via Roma, in pratica il quartiere Lemitone, ad Aversa, significava imbattersi in decine e decine di bassi, che fungevano da abitazioni, dove altrettante madri e figlie lavoravano le tomaie delle scarpe nelle proprie case.

Un mercato del sommerso, con sfruttamento del lavoro nero alla cinese, che riusciva a far sopravvivere centinaia di nuclei familiari. Scarpe sorgevano dal nulla e spesso erano prodotte su modelli e per conto di prestigiose firme. Oggi il settore è in crisi. Aversa, che contendeva il primato della culla delle calzature italiane a Varese e alle Marche, ha visto chiudere diverse fabbriche.

Due, a prima vista, le motivazioni che hanno messo in ginocchio uno dei settori trainanti dell’economia del comprensorio aversano: l’uscita dal sommerso che ha portato una lievitazione dei costi di produzione (insomma, è costato caro smetterla di fare i “cinesi”), come dimostrano i dati della sezione fallimentare del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che fanno registrare una decina di fallimenti in meno di due anni; la sfida lanciata proprio dai cinesi con la concorrenza giunta addirittura in casa considerato che nell’agro sono poco meno di un centinaio i negozi asiatici che, oltre ad offrire paccottiglia tecnologica ed abbigliamento, offrono anche scarpe a buon mercato, ma di pessima qualità.

Per fortuna, però, accanto alle imprese che non sono riuscite a reggere i costi della “legalizzazione”, ci sono altre, che hanno fatto il salto di qualità riuscendo a transitare dal “pronto moda” ad una produzione basata sugli ordinativi e quindi programmabile e senza sprechi.

Ma la strada per rimanere competitivi sul mercato si fa sempre più in salita, come mostrano i risultati per l’export dei primi tre mesi di quest’anno, dove il settore fa segnare un -12% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Il sommerso, comunque, la fa ancora da padrone nel settore, soprattutto alla luce delle rinnovate difficoltà. Ed è proprio questo fenomeno a rendere difficile una situazione certa e dettagliata del comparto calzaturiero. Gli addetti ai lavori, comunque, segnalano poco meno di 350 imprese con più di 15 dipendenti in tutto il casertano, con un numero di addetti regolari che si aggira intorno ai 4.000. Ma la realtà sarebbe ben diversa. Il numero di addetti pare sia almeno il triplo se si considerano anche i cottimisti che sono impegnati in diverse fasi della produzione presso le proprie abitazioni, e quanti operano in nero. Passa, poi, a circa 40.000 se si tiene conto delle fabbrichette con pochi operai o di quelle prettamente familiari. Moltissime lavorano esclusivamente per l’esportazione, soprattutto in Usa e nei Paesi Arabi.

Quasi a voler ribadire che il primato della produzione calzaturiera italiana è ancora aversano, nella città normanna, in questi ultimi anni, si registra un fenomeno tra il simpatico e lo sconcertante. Tra via Belvedere e via Orabona, proprio nelle direttrici delle fabbrichette abusive del tempo che fu, sono sorti una cinquantina, forse anche più, di negozi che vendono esclusivamente scarpe. Da uomo, da donna, da bambini, classiche, moderne, sportive. Siamo di fronte a due strade, confinanti, che offrono agli acquirenti una scelta vastissima e una qualità media a prezzi convenienti.

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