Campo di concentramento: una testimonianza

di Redazione

la stazioneSPARANISE. Il Deposito Merci della stazione di Sparanise, quel grande capannone in muratura di tufo sfondato che ancora oggi si vede nell’area dell’ex scalo merci, è il simbolo del campo di concentramento sparanisano, è ciò che rimane del campo di concentramento tedesco di allora”.

Giovanni Desiderio, 83 anni, ben portati di Castellammare di Stabia, non ha dubbi: era quello il capannone coperto da travi dove i tedeschi avevano sistemato le pareti di legno che poi i deportati dovevano assemblare per ripararsi dal freddo. A dimostrazione che il campo di concentramento di Sparanise non era solo un campo di passaggio ma anche di sosta. Perché i deportati vi rimanevano fermi anche per diversi giorni.

E si, perché anche nel campo di Sparanise furono costruite le baracche, le stesse che si vedono nel video rintracciato in America dal professor Pino Angelone e le stesse che si trovavano nei campi tedeschi di Dachau e Graz. O meglio: le stesse che Giovanni Desiderio ricorda di aver rivisto durante la sua permanenza nel campo di concentramento di Dachau (allora non era ancora “di sterminio”) ed in quello di Graz.

La testimonianza di Giovanni Desiderio, arrivato a Sparanise da Castellammare in occasione della giornata della memoria, è sconvolgente e fuga ogni dubbio, se ancora qualcuno dovesse averli, sul campo di concentramento sparanisano. Desiderio del resto, il più giovane deportato napoletano (allora aveva 16 anni), è di origine sparanisana e manca da Sparanise da qualche mese.

“Quando sono venuto al cimitero lo scorso mese di novembre 2008, passando vicino al grande cancello, quel deposito sfondato in muratura, mi ha fatto venire i brividi. Ho visto quello scalo e mi è sembrato uguale”. Allora come oggi, infatti a Sparanise c’era lo scalo viaggiatori che era distante dallo scalo merci. E da qui partivano i treni per la Germania. In particolare, questo capannone (che allora già era stato costruito per depositare pacchi e materiali), era stato utilizzato dai tedeschi per depositare pezzi e pareti di legno da assemblare, per costruire baracche lunghe una decina di metri.

“Ricordo ancora, – spiega Desiderio – quando vennero da noi i tedeschi e ci invitarono a prendere queste pareti di legno a doghe (lunghe tre metri ed alte due) per costruire le baracche. Il materiale in legno, oltre all’interno del capannone, era accatastato anche all’esterno, sul terreno. Centinaia di pareti da assemblare insieme. Era il 24 settembre 1943. Ed io con i miei paesani eravamo appena arrivati.

La sera del 23 settembre l’avevamo trascorsa a Maddaloni, rinchiusi in una scuola elementare, ma poi, di notte, gli americani bombardarono la scuola e i tedeschi ci portarono a Sparanise. Quel giorno eravamo un migliaio. Sul campo arrivavano camion in continuazione. Ci portarono al centro del campo che partiva dal ponte grande ed arrivava verso il cimitero. Il campo era recintato da alti reticolati che era difficile attraversare senza essere visti. Nel campo abbiamo saputo anche che erano state ammazzate numerose persone: fucilate dalle sentinelle tedesche da sopra il ponte grande, mentre cercavano di fuggire. I tedeschi infatti pretendevano che andassimo noi a prendere e seppellire i cadaveri. In quel capannone in muratura, tuttora esistente, c’erano centinaia di pareti di legno che, assemblate, formavano le baracche, le stesse che ho ritrovato poi negli altri campi che ho visitato.

Itedeschi ci dicevano di costruirle per non passare la notte all’agghiaccio. Era fine settembre e faceva freddo. Allora io che avevo una fabbrica di falegnameria a Castellammare e facevo lavori militari, insieme a quattro miei operai anziani, deportati con me a Sparanise, iniziammo a costruire le baracche. Ne costruimmo in tre giorni, cinque o sei. Ricordo molto bene Lorenzo Maiello, uno dei miei capi operai, che si dava molto da fare. Così, nei giorni che rimanemmo nel campo prima del trasferimento a Dachau, allestimmo sei baracche con pareti di legno di 10 metri. Le stesse baracche le abbiamo trovate anche a Dachau e Graz. Solo che quelle di Sparanise, appena sistemate, non erano ancora tinteggiate, mentre a Dachau e a Graz, dove sono stato 23 mesi, erano tinteggiate marroncino.

Le baracche erano in legno di pino o abete. Ogni parete aveva una struttura portante in legno massello di abete e ai lati erano rivestite da dogato (tavole di 13 cm) dello stesso legno. Il materiale di legno, ripeto, si trovava nel capannone adibito a deposito merci e anche depositato all’aperto. Noi entravamo nel deposito solo per prendere le tavole. Poi, però, dopo tre giorni, il 27 settembre, verso mezzanotte, ci misero in cinquanta per vagone e ci portarono con il treno a Dachau. Il campo, allora, era molto simile a quello di Sparanise, con le baracche già costruite ed il reticolato che recintava un grande terreno. Era però più ampio con più baracche e con i polacchi che aiutavano i tedeschi a sorvegliare.

Il terreno insomma era delimitato con il filo di ferro come nel campo di Sparanise. Era stato da poco allestito e non era ancora diventato campo di sterminio. Infatti dopo una settimana, insieme ad altri deportati, ci fecero uscire e ci portarono nel campo di Graz. Ricordo ancora che a Sparanise nello scalo merci era un continuo trasporto di uomini, merci e munizioni. I tedeschi avevano tolto le ruote ai loro camion e vi avevano sistemato ruote che camminavano sui binari e trasportavano lungo il campo continuamente uomini e munizioni. Ci sembrava di essere in prima linea”.

di Paolo Mesolella

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