La Meloni si presenta nella trincea di Gomorra

di Redazione

MeloniCASAL DI PRINCIPE. Dalle vele di Scampia, e dalla palestra Maddaloni che cerca di strappare i ragazzi alla camorra col judo, all’università della legalità di Casal di Principe, a un incontro con 500 studenti organizzato dall’Associazione degli studenti napoletani contro la camorra.

Giorgia Meloni, ministro della Gioventù, passa un’intera giornata in Campania, per disegnare un «tour della legalità» nelle zone a rischio, dove il confine fra istituzioni e criminalità organizzata è sottile.

Il momento che ti resta impresso, il più difficile, è quello che sulla carta doveva riservare meno sorprese. Una arroventata assemblea con gli studenti nell’auditorium della Regione, con un parterre di autorità che vedeva presente perfino il prefetto di Napoli Alessandro Pansa. Il momento che non ti scordi, dopo che hanno parlato testimoni anticamorra come Silvana Fucito, la prima commerciante di Napoli che ha denunciato il racket, è quello in cui si alzano i ragazzi, cominciando a dire quello che passa loro per la testa. Ti immagini che 500 studenti, in un’occasione ufficiale, si facciano suggestionare dalla retorica o dal politicamente corretto. Macché. Parlano in sei ed è come se il senso di tutta la mattinata rischiasse di andare perso in un pugno di minuti. Studenti diversi, scuole diverse, idee diverse. Ma tutti, persino Laura che sogna una carriera da magistrato, esprimono un sentimento «anti-Stato».

È critico Antonio, ragazzo di popolo: «Quando ho dovuto compilare il questionario anticamorra, alla domanda che mi chiedeva se si poteva sconfiggere la criminalità organizzata, io risposi di no… Perché finché ci saranno politici che prendono fior di stipendi e si allontanano dalla realtà, nulla potrà cambiare e niente potremo fare noi». Imbarazzo alla presidenza, dal fondo della sala parte un «Bravo!», e viene giù un applauso.

Roberta si presenta: «Perché chiedete a noi di fare la lotta contro la camorra quando la polizia ha paura? Perché non correte dietro ai rapinatori? La verità è che qui la legge non è uguale per tutti. A me m’avite levato cinque punti n’coppa a la patente perché andavo in giro senza casco, ma io non avrò mai un lavoro, e quelli con le raccomandazioni fanno carriera». Altro applauso, altro brivido di sgomento sul palco. Arriva Luigi: «Chiedete a noi di correre dei rischi quando dopo solo tre giorni quelli che arrestate ritornano fuori? Abbiamo dei rappresentanti che ci mangiano – attacca -, perché dovremmo esporci noi? Guardatevi prima in faccia». Prende il microfono una professoressa: «Guardate ragazzi che tutti i miei studenti che hanno avuto 110 hanno trovato lavoro, in Italia settentrionale. Erano figli di operai, adesso vincono le borse di studio e non pagano nulla nelle università del Nord».

Ma la rabbia continua, un’altra ragazza, Laura: «Io voglio credervi, vi credo: ma perché quelli che hanno dubbi dovrebbero credervi, se anche il magistrato anticamorra, Raffaele Cantone, ci racconta che è stato lasciato solo?». Altri applausi, parla Anita: «Dite che non dobbiamo comprare merce contraffatta. Un operaio guadagna 800 euro, una borsa di marca ne costa 600. Ma non ha diritto anche lui alla felicità, a poterla comprare?». Poi, incredibilmente, raccoglie un applauso attaccando anche la Chiesa: «Lo Stato pontificio è la prima organizzazione della camorra».

Adesso tocca al ministro rispondere, e ti chiedi: cosa dirà a questi ragazzi che non hanno più fiducia in nessuno? La Meloni decide di affrontare di punta gli scontenti: «Difendere lo Stato – esordisce – non è una parola d’ordine astratta. I potenti non hanno bisogno di sicurezza, sono i più deboli quelli che hanno bisogno di protezione. La legalità non è un favore ai palazzi del potere». Cala il silenzio. Il ministro prosegue, si mette in gioco: «Molte volte, penso di essere inadeguata al ruolo che ricopro, se lo penso io, potreste pensarlo pure voi. Se Giorgia Meloni è inadeguata, lo dovete dire, gridare. Arrabbiatevi con il ministro, il prefetto, le istituzioni. Ma non dovete mai, dico mai, usare questo pretesto come un alibi. Andate nelle strade, sporcatevi le mani, se non vi piace la politica impegnatevi, ma non cedete al qualunquismo». I ragazzi applaudono, stupiti. La Meloni risponde anche ad Anita. «Ognuno ha le sue priorità, ma credo che una vita dignitosa non dipenda da una borsa di marca contraffatta». Il ministro chiude, con un appello che colpisce: «Vedete, io posso mettercela tutta, ma da sola non ce la posso fare.

Anche il prefetto, può fare miracoli, ma non da solo. Se vogliamo vincere la battaglia per la legalità, dobbiamo essere uniti. Perché questa è la battaglia di un popolo che si vuole riappropriare della propria terra». Finisce nello stupore generale, con qualcuno dei ragazzi che aveva urlato la sua rabbia che chiede persino l’autografo al ministro. Poi di corsa in periferia, a Scampia, nella palestra dei Maddaloni, in mezzo a cento ragazzini con il kimono, la Meloni scherza: «Ero la più bassa di tutti, non mi si vedeva nemmeno nella foto».

Ma in mezzo alla rabbia di chi si sente abbandonato, c’è anche l’orgoglio di chi non getta la spugna: «Giorni fa – racconta Gianni Maddaloni – è entrato un uomo che ha iscritto suo figlio, e ce lo ha consegnato con questa frase: “Non voglio che mio figlio cresca come me”». Vale più una frase così che cento proclami. «C’è molto da fare – conclude il ministro -, ma ci sono anche le forze per riuscire a vincere».

Il Giornale (Luca Telese)

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