Otto anni per scrivere una sentenza di mafia: giudice espulso

di Antonio Taglialatela

 ROMA. Ha impiegato otto anni per scrivere una sentenza e tutta questa perdita di tempo ha consentito la scarcerazione degli imputati per decorrenza dei termini.

Si trattava di sette affiliati al clan mafioso dei Madonia di Gela che dovevano essere condannati a complessivi 90 anni di carcere. La sezione disciplinare del Csm ha così espulso dalla magistratura il giudice Edi Pinatto, del Tribunale di Gela, su sollecitazione del sostituto procuratore generale della Cassazione Eduardo Scardaccione e dell’ex ministro della Giustizia Clemente Mastella.

Con questi ritardi, secondo Scardaccione, Pinatto “ha violato l’essenza della funzione giurisdizionale poiché si tratta di un ritardo gravissimo, reiterato, abnorme e ingiustificato. E’ una perdita verticale e non più risarcibile della credibilità del singolo e dell’istituzione nel suo complesso, con un danno ai valori costituzionali, quali la correttezza, la diligenza, la laboriosità e l’equilibrio di un magistrato”. Per il procuratore, inoltre,Pinatto avrebbe centrato il “record mondiale” nel ritardo per il deposito di sentenze.

Il giudice siciliano, da parte sua, si è giustificato dicendo di aver dovuto affrontare una mole di lavoro dopo il suo trasferimento da Gela alla Procura di Milano. “Ho sostenuto un impegno finanziario di trentamila euro e tutte le ferie disponibili per smaltire l’arretrato e la sentenza ‘Grande Oriente’ (quella che vedeva imputati gli affiliati del clan mafioso, nda) è certamente complessa, poiché condensa risultati di indagini di quattro Direzioni distrettuali antimafia, mentre a Gela di solito ci si occupa di criminalità organizzata limitata al circondario. Si è trattato di un ‘circolo vizioso’, di un sovraccarico di turni, e di un gravoso impegno nella convalida di molti arresti, e nell’occuparmi di ben tre omicidi”.

Argomentazioni che, però, secondo Scardaccione non giustificano i ritardi del giudice, dinanzi ai quali c’era stato addirittura un intervento del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Questa sentenza è ‘furba’. – ha sostenuto il procuratore – E’ un volume di 775 pagine in cui non vi sono valutazioni, ma molti copia e incolla, in cui si racconta tutto ciò che hanno fatto le forze investigative, si fa un elenco di ‘pizzini’ ma senza una sola parola di analisi e nessuna valutazione è fatta sulla posizione degli imputati”.

Il processo “Grande Oriente”, uno dei più lunghi della storia giudiziaria italiana, iniziò nel dicembre 1998, quando i carabinieri del Ros arrestarono una cinquantina di mafiosi in tutta la Sicilia, tutti legati al boss Bernardo Provenzano. Tra questi: Giuseppe Lombardo, Carmelo Barbieri, Maria Stella Madonia e Giovanna Santoro, rispettivamente sorella e moglie del boss della Cupola, e Piddu Madonia, da anni in carcere dove sta scontando una serie di ergastoli. Per competenza, il troncone nisseno passò al tribunale di Gela e, nello specifico, al giudice Pinatto che presiedeva la sezione che avrebbe poi processato i quattro imputati eccellenti. Nel maggio 2000 arrivò la sentenza di primo grado, con le condanne di Lombardo e Barbieri a 24 anni di carcere ciascuno, Madonia a 10, Santoro ad 8. Dopo tre mesi il magistrato doveva pubblicare le motivazioni della sentenza. Da allora ci sono voluti otto anni. Ecco perché nel 2002 i condannati furono scarcerati per decadenza dei termini di custodia cautelare. Pinatto, nel frattempo, era stato trasferito da Gela alla procura di Milano, ed anche lì si è creato la fama di ritardatario, tanto da procurarsi più volte formali contestazioni. Dopo diverse segnalazioni del Consiglio superiore della magistratura e del ministero della Giustizia, Pinatto nel 2004 veniva convocato dal Csm, che lo condannava alla perdita di due anni di anzianità. Nel 2006 il giudice veniva di nuovo convocato dal Csm e se la cavava con altri due mesi persi di anzianità.

Oggi, infine, la radiazione, per la quale Pinatto ha tre mesi per impugnare il provvedimento davanti alle sezioni unite della Cassazione.

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