I MandoliNaples all”Antico Palazzo

di Redazione

Nunzio Reina e Salvatore EspositoAVERSA. La tradizione musicale napoletana è un po’ come Napoli: difficilmente definibile.

Non è musica “popolare”, non è musica “colta”, non è solo di tradizione “orale”, non è solo di tradizione “scritta” ma è la combinazione unica di tutti questi elementi che si mescolano e, come direbbe forse un napoletano, “quagliano”, lievitano e volano via.

La storia della musica napoletana, da sola, costituirebbe (e costituisce) materia per volumi e saggi polverosi ma qui, nello spirito agile di FourMandoliNaples, che saranno giovedì 17 aprile, alle ore 21, al caffè letterario Antico Palazzo di Aversa, si porta invece alla cortese attenzione di chi legge solo un esempio che, anche da solo, dimostra la compresenza di “alto” e “basso”, “colto” e “popolare”, “scritto” e “orale” nella tradizione musicale napoletana: la villanella (o villanesca o canzon villanesca) composizione vocale a tre voci su testi strofici spontanei, spesso dialettali, che fu in voga nei secoli XVI e XVII. Essa per la sua immediatezza si contrappose al contemporaneo, aulico, madrigale venendo adottata per questo da madrigalisti sommi come Luca Marenzio, Orlando di Lasso e Adrian Willaert. La villanella viene considerata l’antenata della canzone napoletana e, di fatto, alla vigilia dell’ultimo tour Pino Daniele dichiarava di star reinvestigando questa tradizione vocale. Non ci si stupisca: un’altra caratteristica delle tradizioni musicali è che non esiste un “passato” e un “presente” ma un continuo fluire vivo, vitale e vitalizzante della tradizione stessa, ossia di quel quid indefinibile che viene “trasmesso”, “tradito” da una generazione all’altra. L

a musica di Napoli è, innanzitutto, “urbana”, “cittadina” ed evoca paralleli rapporti tra certe città e le proprie inconfondibili tradizioni musicali: Lisbona e il fado; Parigi e la chanson; Atene e il rebetiko; Istanbul e lo sharki; Bukhara e lo shash maqom. I termini “crogiuolo”, “fucina”, per questi centri urbani dal passato millenario non vengono usati a sproposito e sono forse gli unici possibili. Il processo che vi avviene è simile ovunque: genti diverse, ognuna con le proprie tradizioni musicali, si incontrano tra le sue vie e le sue piazze, interagiscono, si scontrano, si fondono, nascono generi, stili e repertori musicali che vengono a formare un amalgama unico, inconfondibile che è solamente di quella determinata città. In Italia nessuna città, se non Napoli (e, per un periodo limitato, Venezia) ha avuto una simile tradizione di interculturalità. Il mandolino, poi, da solo, potrebbe essere l’illustrazione di certi ampi scambi e rapporti interculturali: si dice, infatti, che esso derivi dal saz, liuto a manico lungo di area iranica, ottomana e centrasiatica, che avrebbe raggiunto l’Italia divenendo il modello del mandolino, il quale appare nel XVI secolo, incontrando da subito grande fortuna proprio a Napoli e nel Meridione e venendo presto adottato da vari compositori curiosi come Vivaldi, come i numerosi autori napoletani del XVIII secolo, giungendo a Mahler, Schomberg, Stravinskij, Webern. FourMandoliNaples è il ripensamento del classico “quartetto a plettro” della tradizione napoletana.

I componenti del quartetto sono tutti, con termine etnomusicologico “artisti di doppia formazione”, ossia prima “tradizionale” e “orale”, acquisita presso genitori e maestri e in seguito, svolta cum laude presso Conservatori e Accademie italiane. FourMandoliNaples cerca di uscire, in questa fase della sua esistenza, dagli stereotipi del “mandolino della tradizione napoletana” presentando un repertorio che spazia da composizioni proprie a trascrizioni di Bach, alla letteratura “colta” per quartetto a plettro, ai classici napoletani nati tra la seconda metà dell’Ottocento e il Novecento, per giungere a brani di autori contemporanei scritti “su misura” per FourMandoliNaples. Insieme, infatti, essi hanno già collaborato e inciso per diversi artisti dell’ambito “pop” (De Piscopo, Giorgia, Ray Charles) e contemporaneo (Daniele Sepe, Adriano Clera). Ciò che resta della tradizione napoletana, spogliata dei suoi stereotipi, è il fuoco, il brio, lo scintillio virtuosistico mai fini a se stessi e l’indefinibile, indicibile, inarrivabile cantabilità.

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