Storia di un candidato alle prossime elezioni

di Redazione

elezioniPrima di tutto mi presento: il mio nome è Italo Stivale. Sono un “giovane” candidato alle prossime elezioni politiche del 13 e 14 aprile 2008. Sono nato a Roma il 1° aprile 1947.

Provengo da una famiglia cattolica della piccola borghesia trasteverina. Sono appassionato di politica da sempre, per questo ho sentito l’impellente bisogno di scendere in campo: per dare il mio contributo alla nazione in crisi. La candidatura mi è costata un occhio della testa, ma se mi aiuterete ad ottenere un seggio in Parlamento vi assicuro che, quando recupererò tutti i soldi investiti, per ringraziamento, vi renderò un servizio che difficilmente riuscirete a dimenticare. Sono nato per fare politica. Io nella politica sguazzo come un maiale nel fango. Ma vi voglio prima raccontare qualcosa della mia famiglia. Mio padre era un convinto “antinterventista”, ma poi si convinse e si arruolò. Dopo aver combattuto, giovanissimo, nella prima guerra mondiale, nei primi anni venti si unì ad un giovane socialista, pieno d’ideali: tale Benito Mussolini. In seguito, abbracciata l’ideologia fascista, combatté nella guerra d’Africa, distinguendosi per le atrocità perpetrate ai danni della popolazione indigena che lui, simpaticamente, chiamava: “Quei brutti negretti”.

Ritornato in Italia, convinto da un suo commilitone, sempre bene informato, visto che prestava servizio presso il Sottosegretariato per l”Esercito del Ministero della Guerra, il CCMSS Centro di Controspionaggio Militare e Servizi Speciali, il 3 settembre 1943, cinque giorni prima di tutti gli altri, gettò armi e divisa, per rifugiarsi in montagna dove, purtroppo, dopo pochi mesi fu convinto “con le buone” a combattere nelle Brigate Partigiane “Giustizia e Libertà”. Lì conobbe mia madre. Un’ex ballerina di can can d’origine ebrea, convertitasi al cattolicesimo appena salito al potere Adolf Hitler. Mia madre faceva la staffetta partigiana di giorno e di notte la crocerossina nell’albergo “Al cervo innamorato”, adattato per necessità ad ospedale di guerra e ritrovo d’alpini. Come dicevo nel ’47 sono nato io. Mio padre era indeciso sul nome da darmi. Gli piaceva molto un giovane idealista chiamato Palmiro Togliatti. A mia madre, invece, che chiamava quello stesso giovane: “Sporco stalinista”, piaceva uno strano personaggio dell’epoca, quasi efebico, un certo Alcide De Gasperi. Per non bisticciare sulla scelta del nome, decisero di chiamarmi Italo, del resto con il cognome che mi ritrovo… Ho frequentato le scuole fino alla quinta elementare.

Non fate caso a com’è scritto quest’appello. Mi sono fatto aiutare dal mio ex maestro di catechismo, al quale sono molto affezionato, anche se sono ateo (o forse agnostico come dice lui). Beh. Per la verità sono più affezionato alla sorella. – “…Cosa?”. – “Mi scusi signor maestro…”. – Ciaff! Ciaff! “Andiamo avanti”. – “E va bene, ahi…andiamo avanti…”.

Dunque, dicevo di essere nato per fare politica. Ma non me n’ero accorto fino ad una certa data. Nel mese di febbraio del 1968, il 29 febbraio per essere precisi (l”anno era bisestile), mi trovavo a Roma. Poco più che ventenne, alto, belloccio avevo deciso di fare l’accompagnatore per giovani signore americane, vogliose di provare la “Dolce vita” in Via Veneto. In quel periodo l’Università era stata occupata dagli studenti. Io avevo conosciuto una ragazza, studentessa di Lettere e Filosofia che mi aveva convinto a seguirla all’interno di una facoltà occupata. Il 1° marzo, era di venerdì, ci radunammo in Piazza di Spagna. Eravamo più di quattromila manifestanti. Ci dividemmo in due cortei. Uno si diresse verso la città universitaria. L’altro si avviò verso Valle Giulia. Una volta giunti sul posto ci ritrovammo a fronteggiare uno schieramento impressionante di forze dell”ordine. Quando uno di noi fu picchiato selvaggiamente dalla Celere, non ci vedemmo più. Iniziammo un lancio d’oggetti contundenti contro la polizia. Una di queste pietre colpì, involontariamente, un corpulento “rivoluzionario” che era poco distante da me. Con enorme fatica, lo aiutai a rialzarsi, aiutato da un altro ragazzo. Il ferito si presentò: si chiamava Giuliano Ferrara. L’altro ragazzo si chiamava Paolo Liguori. Quel giorno la mia vita cambiò. Divenni un fervente comunista, come i miei amici e compagni Paolo e Giuliano. Combattevamo contro l’estrema destra giovanile di allora, in particolare contro un esaltato, un tale Stefano Delle Chiaie, di Avanguardia Nazionale. Durante una scazzottata conobbi una giovane di destra che si chiamava Francesca. Fu subito amore. Avevamo gli occhi pesti e gonfi, ma ci piacemmo subito. Lei si convertì alle mie idee (e ai miei “cannoni” di marijuana). Decidemmo di andare a vivere insieme: in una “comune”. Il nostro pane quotidiano era la difesa dei diritti civili, le marce contro la guerra del Vietnam, il rifiuto dell’autorità, il movimento dei capelloni (o hippies che dir si voglia), la musica rock, la droga, il sesso (era appena nata la pillola anticoncezionale), l’opposizione al governo e alla polizia, il terzomondismo, la partecipazione alle manifestazioni operaie, le occupazioni, le contestazioni (famosa quella davanti al Teatro alla Scala di Milano).

Quando il padre di Francesca, l’ex Federale di un paesino vicino a Predappio, venne a sapere della tresca e della conversione della figlia, andò su tutte le furie. Mi diede un ultimatum. Sposare la figlia e diventare un “fascistone” o sparire per sempre. Non me lo feci ripetere due volte. Lasciai la figlia, non diventai un “fascistone” e scappai a gambe levate. Per evitare guai mi rifugiai presso la Congregazione dell’Ordine di San Benedetto, una comunità monastica in provincia d’Arezzo, a fare degli esercizi spirituali (durati vari anni) insieme con un mio amico monaco. Lì conobbi un noto politico democristiano che, quando a Roma tirava una brutta aria, si rifugiava nel monastero per sfuggire ai rompiscatole e alle “mazzate”. Mi prese subito in simpatia. Divenni il suo braccio destro. Ero sempre in giro per il paese. Autostrade, chiese, ponti, chiese, porti, chiese, uffici postali, chiese, era tutto un susseguirsi di pose della prima pietra. Opere faraoniche, spesso ubicate in paesini che solo per arrivarci era un’impresa, “destinate a cambiare il volto dell’Italia (e il voto degli italiani)”: questo mi diceva il mio capo corrente doroteo. Poi arrivarono i tempi bui. Entrammo nel mirino delle Brigate Rosse. Anzi, per essere più preciso, il mio amico democristiano entrò nel mirino delle BR. Eppure era così benvoluto da tutti. Comunque non mi persi d’animo. In questi frangenti bisogna stringere i denti e farsi coraggio. Gli lasciai un bel biglietto di ringraziamento per tutto quanto aveva fatto per me e mi misi in cerca di un lavoro. Incontrai un vecchio camerata (in tutti i sensi) soprannominato Licio (in onore di un potente conoscente del padre). M’invitò a casa sua. Mi propose di fargli d’autista, ma ad una condizione: tutto quello che avrei sentito e udito dovevo portarmelo nella tomba. Mai e poi mai, una parola sarebbe dovuta uscire dalla mia bocca. Accettai subito. Frequentava strana gente. Si riunivano di notte, nei luoghi più impensati. Si portavano appresso sempre una ventiquattrore legata al braccio con una catenella. Non la lasciavano mai. Un giorno, anche se per pochi istanti, il mio datore di lavoro me l’affidò dimenticando di chiuderla. L’aprii, dentro c’era uno strano cappuccio ed un grembiule tutto ricamato. Quando tornò, ebbi la strana sensazione di essere stato scoperto e che la mia curiosità sarebbe stata duramente punita. La cosa, invece, finì lì. Almeno così pensavo. Un giorno, un brutto giorno, accesi la televisione. In quel preciso momento il telegiornale mandava in onda le immagini registrate dell’arresto del mio datore di lavoro. Feci appena in tempo a scendere le scale, quando arrivò la polizia a prendere anche me. Mi portarono in questura. Mi accusavano di essere stato un fiancheggiatore della Banda della Magliana. Assolutamente falso. È vero che avevo conosciuto un tale che si chiamava Enrico De Pedis, che io chiamavo affettuosamente Renatino, ma null’altro. Dopo la sua morte (fu ucciso nel febbraio del 1990) seguii il suo funerale fino alla chiesa di Sant”Apollinare, nei pressi di Piazza Navona, dove fu sepolto nella cripta, insieme a nobili, principi della chiesa e grandi artisti. Ma nulla di più. Si, andavo a mangiare in una delle sue tante trattorie, ma che è un reato? In ogni caso, grazie all’intervento di un potente amico del mio ex capo, fui prosciolto da ogni accusa. Andai a Milano. Mi ricordavo che lì c’era un vecchio conoscente di mio padre: Mario Chiesa. Era il presidente del Pio Albergo Trivulzio. Pensai che lui potesse darmi un lavoro. Mi fissò appuntamento per il 17 febbraio 1992, alle ore 17. Alcuni pensano che il 17 porta male. Altrochè! Lo vidi portare via dalle forze dell’ordine, sotto i miei occhi.

Tangentopoli, questo fu il nome con cui fu ribattezzata dalla stampa la città di Milano per colpa del mio amico Mario. E pensare che, su suggerimento di un altro caro amico, vicino a Bettino, mi ero pure preoccupato di farmi la tessera del Partito Socialista. Soldi sprecati. Decisi di dire basta alla politica. Ci voleva un periodo di lontananza da tutto quanto odorava di politica e di politicanti. Decisi di spacciarmi per un talent-scout di calciatori. Fui ingaggiato, dopo un breve colloquio, dal settore giovanile di una grossa squadra di serie A. In quel periodo mi divertii moltissimo. Girai l’intera Europa. Conobbi migliaia di persone. Ogni cosa, però, viene a nausea, quando diventa troppo ripetitiva. Lasciai il calcio, le partite truccate, gli arbitri venduti, il campionato taroccato, i finti oriundi, le scazzottate sugli spalti, i padri che mi offrivano i soldi (e le figlie) per far diventare calciatori di serie A i figli maschi ecc. Ne avevo abbastanza.

Mentre cercavo una nuova collocazione, un giorno, era il 9 dicembre del 1993 m’imbattei in un manifesto che annunciava la nascita del primo club di Forza Italia per opera di un tale Silvio Berlusconi. Un nome che avevo già sentito, ma non riuscivo a ricordare dove e quando. Pensai: “Deve essere stato organizzato da un circolo di tifosi della nazionale”. Tra l’altro il manifesto annunciava pure la presentazione de “L’Inno degli azzurri”. Decisi di entrare. Mi sembravano degli esaltati. Silvio, Silvio, Silvio, tutti gridavano a squarciagola. Sarà stato il clima festaiolo, l’atmosfera da sagra paesana, mi ritrovai a cantare anch’io: “E Forza Italia…”. Quell’uomo mi affascinava. Decisi di seguirlo fino in fondo. Aveva le idee chiarissime o, perlomeno, così sembrava. Mi spacciai per un diplomato in Musica Corale e Direzione di Coro presso il Conservatorio “Giuseppe Tartini” di Trieste. Entrai a far parte del coro…nel senso musicale del termine. Seguivamo il nostro Leader in giro per l’Italia. Prima d’ogni congresso c’esibivamo nella ormai celeberrima: “…e forza Italia…”, anche se a me faceva vomitare tanto era insulsa, melensa e scritta per un pubblico di deficienti. Partecipando a tutte le uscite pubbliche del mio Leader, però, iniziai a notare che aveva una certa propensione per le menzogne. Sicuramente le diceva a fin di bene, ma ne sparava talmente tante e talmente grosse che incominciai a preoccuparmi. Qualcuno, infatti, si pose la fatidica domanda: “E se fosse solo un gigantesco pallone gonfiato?”. “Questo se cade, ci porta con se nel baratro…”.

Senza andare troppo per il sottile iniziammo a cercarci un nuovo Leader. Questa fu la mia fortuna, perché dopo pochi giorni, precisamente il 22 dicembre 1994, il Silvio fu costretto a dimettersi, per colpa di una mozione di sfiducia della Lega Nord, che non condivideva le sue politiche sociali (inesistenti) e premeva per la risoluzione del famoso conflitto d”interessi. Pur essendo romano di nascita le esternazioni del Senatur Bossi mi piacevano. Decisi di abbracciare la causa leghista. La cosa, però, durò pochissimo tempo. Appena ricevuta la tessera d’iscrizione alla Lega per la liberazione della Padania, fui incaricato, insieme con un gruppetto di ragazzetti di origine veneta, di andare in centro a Carugate ad affiggere dei manifesti. Quando li vidi, rimasi esterrefatto. “Roma Ladrona”, “Romani Bastardi”, “Libertà da Roma”, questi erano gli slogan riportati sui manifesti. Ora, non tanto per “Roma Ladrona” e “Libertà da Roma”, ma incominciarono a rotearmi gli zebedei per colpa di quel “Romani bastardi”. “Ma bastardi sarete voi e quella grandissima zocc… della Serenissima”, non finii di dire la frase che mi furono tutti addosso. Per fortuna si trovava a passare un corteo d’operai metalmeccanici di una fabbrica in dismissione. Non vi dico i leghisti come furono ridotti. Gli operai mi invitarono ad unirmi allo sciopero. Accettai “incondizionatamente”.

Mi sembrava di essere tornato ai bei tempi del ’68. Scioperi, occupazioni, cortei; a lavorare in pratica non andavamo mai. Nel mentre c’erano state le nuove elezioni. Aveva vinto il candidato del centrosinistra (Ulivo), un tale di nome Romano Prodi. Una faccia da bonaccione che, pensavamo, avrebbe ridato la dignità alla nazione. Pie illusioni. S’era circondato di personaggi poco affidabili. Alcuni, non posso fare i nomi (me li potrei trovare a fianco in Parlamento), li avevo conosciuti, quando accompagnavo il mio amico “incappucciato” alle riunioni dei “fratelli”. Contemporaneamente ero stato avvicinato da un “traffichino” che mi aveva offerto un posto da “operatore telefonico”. In pratica, il mio datore di lavoro operava per conto dello Stato. Per essere più preciso, la Procura gli affidava il compito di “sbobinare” i nastri con le intercettazioni.

“Sbobinare” significava, in pratica, trascrivere ore ed ore d’insulsaggini, raramente intervallate da spezzoni di conversazione realmente utili alle varie indagini. In ogni modo, pagavano bene ed io “sbarcavo il lunario”. Un giorno mi capitò una strana bobina. Conteneva l’intercettazione tra un portaborse di un grosso personaggio politico e il segretario particolare di un politico che io ritenevo “onesto”. In pratica il segretario del politico “onesto” offriva soldi al portaborse per farsi consegnare dei documenti che sarebbero stati utilizzati per ricattare il personaggio politico “grosso”. Corsi subito ad avvisare il Capo. Mi disse di non rivelare niente a nessuno. Così feci. Ora il mio capo è candidato in un collegio elettorale “blindato” e io, invece, mi devo “arrangiare”. Tra un paio di mesi, forse, lo dovrò pure chiamare Senatore. Che schifo!

Ma, torniamo alla mia storia. Forse per colpa di una soffiata anonima, all’epoca delle “sbobinature” fui arrestato per aver fornito informazioni riservate ad un servizio segreto straniero. In realtà avevo solo aiutato un mio caro amico palestinese in una sua faccenda privata. Era il 18 maggio 1996. Mi beccai ben dieci anni di carcere. Sarei dovuto uscire il 18 maggio 2006. Così fu. Mi accorsi però d’alcune strane coincidenze. Il 18 maggio 1996 s’insediò il primo Governo Prodi, mentre il 17 maggio 2006 s’insediò il secondo Governo Prodi. Nel mentre c’erano stati altri cinque governi: il primo Governo D”Alema, dal 21 ottobre 1998 al 22 dicembre 1999; il secondo Governo D”Alema, dal 22 dicembre 1999 al 25 aprile 2000; il secondo Governo Amato, dal 25 aprile 2000 all’11 giugno 2001; il secondo Governo Berlusconi dall’11 giugno 2001 al 23 aprile 2005 e il terzo Governo Berlusconi dal 23 aprile 2005 al 17 maggio 2006. La mia vita si è incrociata spesso con questi due personaggi: Prodi e Berlusconi. Che strano. Ma, forse, è proprio per questo che ho deciso di candidarmi. Troppi governi. Troppi cambi di casacca. Prodi, D’Alema, Amato, Berlusconi: sempre le stesse facce per anni. Qui, invece, occorrono uomini seri. Uomini dalla faccia pulita. Uomini in grado di guidare il paese senza la paura di essere ricattati. Uomini dalle mani pulite. Persone dotate di buon senso.

Persone come me! Votatemi, vi prometto cose mai viste, “ma, per fare la cosa giusta bisogna anche saper essere impopolari”. “Se si vuole migliorare una nazione bisogna prima conoscerla, ascoltarla”. “Non ho scelto io la politica, mi è stata imposta dalla storia”. “Non si ottiene nulla senza applicazione e senza sacrifici”. “Fidatevi di me. Lasciatemi lavorare e vedrete che i risultati arriveranno”. “L”opposizione non è nel mio DNA”. “Io ritengo di essere geneticamente, istintivamente un innovatore”. “Non sono un maniaco dell”immagine”. “Non c”è nessuno che può pretendere di confrontarsi con me, nessuno dei protagonisti della politica attuale”. “La mia bravura è fuori discussione”. “La mia sostanza umana, la mia storia, gli altri se la sognano”. “Dimostrerò nero su bianco di essere eticamente superiore agli altri protagonisti della politica”. “Io vinco sempre, sono condannato a vincere”. “Sono un galantuomo, una persona perbene, un signore dalla moralità assoluta”. “Sono la persona più realista che si conosca e, quindi, non c”è nulla di più lontano da me che il desiderio di staccarmi dalla realtà”. “Sono convinto che vanno condannate in maniera forte la corruzione e l”utilizzo spregiudicato del potere”.”Ho troppa stima dell”intelligenza degli italiani per pensare che ci siano in giro così tanti coglioni che possano votare facendo il proprio disinteresse”. “La libertà è l”essenza dell”uomo, è l”essenza della sua mente e del suo cuore, l”essenza della sua intelligenza e dei suoi sentimenti”.”Sono contro i parrucconi della vecchia politica”. Sono sicuro che lo siete anche Voi. Votatemi!

P.S. Mi scuserete se le ultime frasi, quelle in corsivo, le ho “rubacchiate” da: Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Romano Prodi e Walter Veltroni. Vediamo se riuscite a distinguerle.

Il Vostro affezionato candidato

ITALO STIVALE

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