Camorra: “E ora uccideteci tutti”

di Nicola Rosselli

don Peppe DianaAVERSA. L’arresto di cinque esponenti del clan camorristico dei “casalesi” grazie alla reazione della vittima di turno apre uno squarcio di luce, di speranza su questo nostro martoriato territorio.

Sabato scorso è stata la volta di questo giovane trentenne di Lusciano (con tanto di moglie e figli, ai quali è stata assicurata la massima protezione da parte dei carabinieri che, in continuazione, transiteranno nei pressi della casa e saranno presenti nel bar). Precedentemente altri due imprenditori avevano scelto di denunziare i loro aguzzini. Questi parassiti che tirano a campare sulla fatica e sul sudore di chi ha scelto di essere onesto stanno vivendo una stagione difficile. Soprattutto dalle nostre parti, dove da sempre si è pagata la “tangente” (da noi si chiama così e non “pizzo”, termine più siciliano) senza che nessuno mai abbia accennato un minimo di reazione. “E ora uccideteci tutti” affermarono i ragazzi di Locri dopo la morte del consigliere regionale calabrese Francesco Fortugno. “E ora uccideteci tutti” potrebbe essere lo slogan, il motto di tutti gli imprenditori aversani e dell’agro che dovrebbero essere pronti a denunziare chi li vessa. Negli anni ottanta ho avuto la fortuna di conoscere, grazie a questo mio hobby di cronista, l’allora dirigente del commissariato di Aversa. Si chiamava Salvatore Pera, era napoletano ed aveva collaborato a lungo con il vice questore Ammaturo, ucciso dalle Brigate Rosse. “Rossè – diceva il dirigente di polizia con quel suo dialetto mai accantonato – il reato di estorsione sarebbe quello più fesso da combattere se le potenziali vittime dessero un minimo di collaborazione. E sapete perché? Perché il camorrista deve per forza ritornare a ritirare la tangente. Non si scappa. Ed allora possiamo prenderlo facilmente. Invece, assistiamo impotenti a negozi fatti saltare in aria nella più grande omertà”. Da allora sono trascorsi una ventina di anni, ma non invano. Così come non è stato invano il sacrificio di don Peppe Diana, il sacerdote anticamorra di Casal di Principe. Mi ha fatto enormemente piacere che questi arresti siano avvenuti quasi nella stessa ora di quattordici anni or sono, quando Peppe (lo chiamerò così perché Peppe era un amico, non un sacerdote qualsiasi per me e per altri che hanno avuto la fortuna di incontrarlo e di frequentarlo costantemente) fu trucidato dai camorristi nella sacrestia della sua parrocchia a Casal di Principe. Peppe non era un eroe, assolutamente. Così come non si chiede di essere eroi a quanti subiscono torti dalla camorra. Ma era un giovane sacerdote, amante della vita e della sua età giovane, che credeva nell’impegno sociale del sacerdozio e per questo aveva dato vita ad una nota pastorale della forania di Casal di Principe. Un appello accorato dal titolo “Per amore del mio popolo”. Mai la Chiesa (quella con la “C” maiuscola) aveva osato tanto a Casal di Principe. Eppure, al suo funerale, il vescovo di allora, non vorrei sbagliare, mi sembra fosse monsignor Lorenzo Chiarinelli, non pronunziò mai la parola “camorra”. Peppe, quando oggi assisto ad episodi tipo quello dell’imprenditore di Lusciano, non è morto invano. Molte coscienze sono state scosse da un sacrificio, quello della vita, il massimo, soprattutto per un non credente come me, che non ha speranze di resurrezione. Immedesimandosi in Lui che era credente, mi piace immaginarlo sorridente e grintoso mentre invita gli amici che ha in Paradiso con quella sua inflessione casalese: “Quagliù pigliate o’ pallione che ce faccimo na partita”. Ciao Peppe!

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