Il sindaco sconfessa i boss: sto con Saviano

di Redazione

Cipriano CristianoCASAL DI PRINCIPE. Con Roberto Saviano, con la denuncia aspra di Gomorra e con l’invito alla speranza lanciato dal palco. Senza indugi, senza ripensamenti, sottoscrivendo il «discorso altissimo» di lunedì mattina e censurando il rumoreggiare della piazza del mercato.

Roberto SavianoIl giorno dopo le contestazioni a Fausto Bertinotti e gli insulti allo scrittore, è il giorno della conta dei buoni e dei cattivi. Cipriano Cristiano, il sindaco forzista eletto in primavera, si schiera dalla parte di chi denuncia soprusi e malaffare. Non gli sono piaciute le critiche arrivate alla sua Casale dalla stampa, non ci sta a passare per il primo cittadino di un paese di soli camorristi. «È un giudizio ingeneroso – ragiona Cristiano nella sua stanza, al primo piano di quel palazzo troppe volte sciolto per causa dei condizionamenti di camorra – perché noi siamo contrari alla camorra, la condanniamo». E prende le distanze dal grido di contestazione che si è levato dal fondo della piazza del mercato quando Bertinotti ha parlato del mito della mafia come di «moneta falsa». «Non doveva accadere, sono io il primo a chiedere scusa al presidente della Camera a nome di tutta Casal di Principe». Poco prima il padre di Francesco Schiavone-Sandokan aveva insultato lo scrittore di Gomorra, aveva definito Saviano «un buffone», aveva cercato di salire sul palco. Aggiunge Cristiano: «Premetto: credo che sia strumentale andare a intervistare il padre di un camorrista, e sottolineo la parola camorrista, chiedendogli del figlio. Ma io sto con Roberto Saviano. Ci ha regalato parole molto belle, il suo è stato un discorso di altissimo profilo». Perché la camorra a Casale c’è, e Cristiano non lo nega. «Ha spadroneggiato per anni, e quel periodo non è ancora finito. Rispetto a qualche anno fa lo Stato è più presente, e ciò ci consente di sperare in un futuro un po’ più roseo. Ma l’humus di questa terra non è cambiato». Solo che vorrebbe che di Casal di Principe si parlasse anche in altro modo, ricordando chi ha pagato con la vita l’impegno contro il malaffare: «Don Peppino Diana è nostro, lo sarà sempre. Anche lui è Casal di Principe». Cristiano chiede normalità. E la normalità del giorno dopo è il posto di blocco della polizia all’ingresso di Casale, alla rotonda dove la colletta popolare – qualcuno dice di camorra – ha innalzato la statua di papa Giovanni Paolo II. Tre ragazzotti vendono statuette della Vergine e pupazzi dalle sembianze di Biancaneve in quella sorta di santuario improvvisato che limita l’incrocio. I controlli sono per le auto grandi, quelle costose. Nelle altre, spiegano, girano solo poveracci, onesti lavoratori che a stento arrivano alla fine del mese. Schiavone (padre)La normalità del giorno dopo è la piazza del mercato vuota e abbandonata: chiuso il circolo cattolico, che lunedì mattina aveva prestato le sue sedie al pubblico locale, chiusi i due bar – il Futura, sul quale fa bella mostra il cartello di locazione, e la caffetteria, ancora in fase di allestimento – e chiuse anche le finestre dei palazzi che affacciano sulla chiesa dell’Annunziata. Su una panchina è seduto Vincenzo Diana, meccanico appiedato da un infortunio alla gamba. «Ieri c’era, qui in piazza?». C’era, ma senza entusiasmo, neutralmente a mezza strada tra quanti erano seduti sul palco e quanti erano confusi tra il pubblico. «Ogni testa è un tribunale», commenta il meccanico. Ognuno la pensa come vuole, spiega, ma lo Stato, e Saviano, non lo hanno incuriosito. Su un’altra panchina Pasquale dispensa consigli. È critico con Bertinotti, «ma non era lui quello che predicava il disarmo della polizia», non ce l’ha con lo scrittore di Gomorra. «Non l’ho letto, ma non ho letto anche tanti altri libri. Se qui c’è quella gente è perché lo Stato è stato assente». Antonio abbozza, lui c’era lunedì mattina all’inaugurazione dell’anno scolastico. «E come facevo a non esserci?

Vendo scarpe, sto sulla piazza, ero proprio là», dice indicando il negozio. Più avanti, proprio dove lunedì mattina c’era il palco della giornata anticamorra, la polizia controlla gli occupanti di una Mercedes nera, la stessa avvistata poco prima dalle parti del campo sportile. Routine, il cuore malato di un paese rassegnato alla cancrena. Renato Natale, che fu sindaco per un anno solo, subito dopo il primo scioglimenti antimafia, racconta il suo paese triste e sporco di sangue. Lui, che fu segretario del Pci e che a sinistra è ancora oggi, spiega il disagio di chi ha visto cambiare la politica ma non le cose. «A quel tempo, quando denunciavamo gli affari di camorra, eravamo un gruppo composta da volenterosi, magari da qualche esaltatato, magari da qualche ingenuo. Era certa una cosa, però: da quale parte eravamo. E ora? Ora non lo sa più nessuno». Lui che è stato obiettivo di camorra, bersaglio pubblico delle vendette casalesi, comprende anche l’indifferenza della piazza perché in un paese piccolo è più facile vedere chi va a braccetto, chi accusa dal palco e condivide invece affari e interessi, chi ha piegato la questione morale al più ipocrita qualunquismo. Renato Natale, medico e volontario, di quel disagio è testimone. Ed è voce narrante della simbologia spicciola della sua terra: le scritte fatte «con il sangue», il rosario in una tasca e il revolver nell’altra, la recinzione di acciaio innalzata nel piazzale del cimitero, quello dei troppi morti giovani, per impedire che anche la terra consacrata diventasse discarica. Contraddizioni, come le cappelle di famiglia, rivestite di marmo pregiatissimo intitolate a boss ancora in vita e che fanno da anticamera a quella semplice, e rigorosa, nella quale è sepolto don Peppino Diana. Un corridoio più in là, a una manciata di metri dai suoi assassini.

Il Mattino (ROSARIA CAPACCHIONE)

Lo scrittore sale sul Colle: «Ma nulla è cambiato»

Ventiquattr’ore dopo il suo ritorno a Casal di Principe, a giornali sfogliati e sensazioni messe a fuoco, a Roberto Saviano è chiara una cosa: il giorno che doveva essere celebrato come avvio dell’anno scolastico nel segno della legalità, con il presidente della Camera Bertinotti e quello dell’Antimafia Forgione, si è trasformato in momento di conferma della perdurante arroganza della camorra. E forse anche per sentirsi meno solo, dopo una notte passata chissà dove, in un posto segreto dove i clan non possano trovarlo e di volta in volta diverso, il ragazzo scrittore che vive sotto scorta è andato a Roma, al Quirinale, a incontrare il presidente Napolitano per la Giornata dell’informazione. Per una volta ha smesso il modo di vestire dark per mettere su una giacca color lavanda casual, senza cravatta. Ha ascoltato le parole del presidente su Giancarlo Siani e l’importanza di non arrendersi a camorra e mafia restando assorto, quasi per trarne coraggio. E il presidente ricambiava lodando il coraggio suo e di Lirio Abbate, il cronista dell’Ansa di Palermo a sua volta fatto oggetto di minacce. Nella sala dei Corazzieri gremita di giornalisti Giorgio Napolitano ha stretto la mano ad entrambi, come a sottolineare una sua volontà di protezione speciale. «Ha fatto bene ad andare a Casal di Principe, un posto dove mi recavo sempre da giovare e mi dicevano: statte accuorto», ha detto il presidente della Repubblica rivolto al ragazzo scrittore. E quando un forte applauso ha salutato il nome di Saviano pronunciato da Geppino Fiorenza dell’associazione Libera, lui ha avuto un sorriso timido. «I clan sono caduti nella trappola, hanno creduto di segnare la loro presenza sul territorio e invece hanno sortito solo l’effetto di riaccendere l’attenzione di tutto il Paese su Casal di Principe», ha detto. E ancora: «Non volevano mandare un messaggio a me, ma alle altre famiglie del posto, per dimostrare che non mollano». Il giorno dopo il suo ritorno a Casal di Principe, Saviano confessa che lo aveva immaginato e desiderato ben diverso. Lo fa rispondendo alle email di chi gli scrive, o con le frasi dette alle telecamere di Sky Tg24 davanti al Quirinale. «Che foto disperante la mia pubblicata oggi sulla prima pagina del Mattino», commenta, ma si capisce che in quell’immagine di sé sul palco della piazza di Casal di Principe, in piedi con le mani sul volto a coprirsi gli occhi, si è come specchiato. Perché la tensione seminata dalle presenze ostili ai bordi della piazza che dicevano «la camorra non esiste», al ragazzo scrittore è arrivata per intero. Lui parlava e parlava, voleva rivolgersi ai giovani del paese, mostrare loro l’ottimismo della ragione che sempre dice di preferire a quello della volontà. Voleva ignorare le finestre chiuse, mettere a fuoco le facce pulite che gremivano la piazza, ma che non erano di ragazzi del posto. E intanto non gli sfuggiva l’agitazione prodotta tra gli agenti della Digos dal tentativo del padre di Sandokan di salire sul palco. «Mi accorgevo di tutto, purtroppo», ha confessato. Saviano ha percepito anche l’ostilità manifestata nei gesti, nella postura tipica di chi vuol sfidare esibita da alcuni giovani ai bordi della piazza: «Mi dispiace che, mentre parlavo, moltissimi ragazzi si mettevano a braccia conserte, a segnalare la loro totale distanza da quello che dicevo». E se deve riassumere in una parola il suo stato d’animo per l’assenza del paese alla cerimonia di lunedì, quella parola è dolore. «Ho provato dolore nel vedere una reazione così terribile che permette a degli uomini di ostacolare apertamente chi cerca di combattere i clan». Cionondimeno, Saviano ribadisce per l’ennesima volta che le accuse contro i clan formulate in Gomorra tornerebbe a ripeterle, ancora e sempre. «C’è solo una cosa che non mi perdono, ed è ciò che hanno dovuto subire i miei familiari»: e dietro queste parole c’è l’apprensione per alcuni atti sgradevoli ora oggetto di un’informativa dei carabinieri, che potrebbero essere spie di un’ostilità montante contro qualche parente stretto. Ma alla fine resta da commentare quella frase pronunciata lunedì in piazza, la frase di sempre, declinata dalla Sicilia alla Calabria alla Campania, quel «la camorra non esiste». «Sono parole che feriscono perchè dette non di nascosto ma con orgoglio proprio mentre ci sono il presidente della Camera e dell’Antimafia». E sono parole capaci di dare corpo a un incubo pesante come una certezza, che Saviano riassume in modo semplice e doloroso. Dicendo: «Credo che niente sia cambiato».

Il Mattino (TITTI MARRONE)

L’inviato delle «Iene» pedinato da due auto fino a Capodichino

Le Iene

La disavventura della «iena» Giulio Golia a Casal di Principe deve aver lasciato il segno. Il giorno dopo la sua incursione in piazza Mercato, nella roccaforte del clan dei Casalesi, Golia non vuole lasciare dichiarazioni. Preferisce non enfatizzare l’accaduto e declina, cortesemente, l’invito a commentare il pedinamento subito al ritorno da un’auto nera fino a Capodichino, limitandosi a precisare che le auto in verità erano due, e che si è trattato, evidentemente, di una scorta non richiesta, un modo per accertarsi de visu – perché più di qualche scambio di sguardi con gli «accompagnatori» non c’è stato – che la troupe di Italia Uno se ne fosse andata sul serio. Armato di microfono e di un volume di «Gomorra», Golia aveva infatti appena intervistato Nicola Schiavone, padre del boss Sandokan e dopo la manifestazione aveva girato con la sua troupe per raccogliere commenti dai cittadini di Casal di Principe e per mettersi sulle tracce della villa sequestrata di Sandokan, di cui parla diffusamente lo stesso Saviano nel suo libro. Sono entrati nei bar, hanno chiesto indicazioni, rivolto domande, ma hanno raccolto risposte vaghe e poca voglia di parlare. Qualcuno ha chiesto di identificare la «iena» Golia – «Lo conoscete a questo?» – qualcun altro ha usato toni non proprio ospitali, finché Golia ha capito che non tirava più aria. Lasciata Casal di Principe, la macchina delle «Iene» è stata seguita da due auto. Un tallonamento discreto, ma costante, fino a Capodichino. Una brutta avventura che però, a quanto pare, non ostacolerà la messa in onda del servizio, che dovrebbe passare, salvo imprevisti, domani sera.

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