Droga e racket, vigili al servizio del boss

di Redazione

Mario De FalcoSAN CIPRIANO. La guardia privata del boss era di stanza accanto al palazzo del Comune, negli uffici della polizia municipale trasformati in avamposto della famiglia Iovine e degli amici degli amici. Un comando allineato ai progetti di camorra, dove sette degli undici vigili in servizio, comandante incluso, erano sul libro paga dell’uomo più ricercato d’Italia, di quel «ninno» dalla faccia da imprenditore inseguito da dodici anni, sinora inutilmente, dai migliori cacciatori di fantasmi d’Italia.

Là, nella sede di via Roma, a d’Aversa, si incassavano tangenti e si sniffava cocaina, si prestava il telefono di servizio a chi voleva evitare di essere ascoltato, si metteva l’auto con le insegne a disposizione dei parenti, forse anche dello stesso latitante. Là, nella sede della polizia municipale, il comandante vero si chiamava Giuseppe Iovine, fratello del boss, vigile urbano al quale la qualifica di sicurezza e il porto di pistola erano stati revocati due settimane dopo il blitz di Spartacus (era il 5 dicembre 1995, e da allora del «ninno» non si hanno più notizie) ma che aveva continuato, indisturbato, a indossare la divisa scalzando nei fatti il suo capo, Pasquale Martino. Peppe Iovine, 45 anni, dall’ufficio è andato via a febbraio, mentre la commissione d’accesso indagava tra le carte del Comune cercando collusioni e condizionamenti. Tutti gli altri, fino all’alba di ieri, erano ancora in servizio. All’alba, quando gli investigatori della Squadra mobile di Caserta hanno perquisito il Comando e le abitazioni di nove persone: sette vigili e un loro amico, un pregiudicato San Cipriano che faceva da factotum a Giuseppe Iovine. Un’altra persona che compare negli atti dell’inchiesta non è stata ancora identificata compiutamente. Nove le persone indagate nell’inchiesta della Dda (i decreti di perquisizione portano la firma del coordinatore Franco Roberti e dei pm Raffaele Cantone e Antonello Ardituro), otto gli avvisi di garanzia notificati. Giuseppe Iovine, attualmente in servizio all’ufficio tecnico del Comune, è accusato di associazione camorristica, peculato e concussione. Gli altri, a vario titolo, di peculato e concussione, reati però aggravati dal favoreggiamento della camorra. In casa di uno dei suoi colleghi, gli investigatori hanno trovato un numero di cartucce, quelle in dotazione, inferiore a quelle registrate: proiettili che sono stati, dunque, ceduti illegalmente o utilizzati in un’azione di fuoco ma non certo in un’operazione di servizio di cui non c’è traccia documentale. Inquietante lo spaccato emerso dalle indagini della Squadra mobile, che abbracciano quasi un biennio (parte del 2004 e il 2005) e che erano finalizzate, in origine, alla ricerca di Antonio Iovine. Si scoprì ben presto che il latitante utilizzava il fratello Giuseppe per le sue faccende (di fatto, era l’autista di famiglia, utilizzando per questo l’auto di servizio) ma che non si fidava di lui al punto da impiegarlo come messaggero o per fargli da staffetta: la cocaina aveva reso Peppe inaffidabile e chiacchierone. Ma l’attività di osservazione, di pedinamento e di ascolto (telefonico e ambientale) ha scoperchiato la pentola delle collusioni e delle infiltrazioni. La polizia municipale di San Cipriano era al servizio della famiglia Iovine, prendeva ordini dal vigile Giuseppe che considerava portavoce del «ninno», si prestava a taglieggiamenti e peculati. Nell’ufficio si sniffava cocaina (sotto l’occhio della telecamerina della Mobile) e si incassavano tangenti (anche di poche centinaia di euro). E si spiavano i movimenti (delle forze dell’ordine e dei «nemici»), si riferiva in alto, e si aggiustavano pratiche di abusivismo edilizio, si entrava nelle case giuste protetti dalla divisa. Diffcile davvero, nel paese del boss, distinguere il buono dal cattivo, la faccia dello Stato da quella della camorra.

Il Mattino (ROSARIA CAPACCHIONE)

«Chi mi dirà di no? Io sono il parente del ninno»

San CiprianoGiuseppe e Antonio, due anni appena di differenza, l’uno in divisa e l’altro alla macchia. Fratelli di sangue, complici quando occorre. Più per necessità che per scelta perché il più piccolo, il «ninno», del vigile si è sempre fidato poco: per via della droga, che Peppe (45 anni, sposato e padre di due figli) consuma da tempo, ma anche perché taglieggia grandi e piccoli commercianti per conto proprio. Attività fastidiose, che disturbano i grandi affari e portano la polizia in casa, che creano malumori anche nella fittissima rete di complicità insospettabili di cui un latitante di rango ha bisogno per conservare potere e prestigio. Non è certo un idilliaco quadretto di famiglia, quello che emerge dalle intercettazioni telefoniche e ambientali che fanno da supporto alle perquisizioni eseguite ieri dalla Squadra mobile di Caserta. Un’indagine nata da quella più grande, finalizzata alla cattura di Antonio Iovine – irreperibile dal 5 dicembre del 1995, con Michele Zagaria tra i primi dieci latitanti d’Italia – che ha tracciato invece uno spaccato di vita quotidiana all’interno del comando di polizia municipale. E se la sede dei caschi bianchi era, in realtà, una sorta di circolo privato dove si sniffava cocaina, si ospitavano camorristi e si trattavano affari, e dove il vero comandante era Giuseppe Iovine, ecco che lo stesso si lamentava spesso e volentieri con il nipote, il primo figlio del «ninno», di come veniva trattato dal boss: pochi soldi e scarsa fiducia. Una volta il ragazzo era andato a chiedergli di comprare dei pezzi di ricambio per l’auto, soldi alla mano. Si era sentito rispondere che quel denaro andava diviso tra di loro, che il rivenditore non sarebbe stato pagato. Ma lui aveva insistito: «A casa lo sanno come sei fatto, mamma vuole la ricevuta». Dei cattivi rapporti familiari all’esterno non si sapeva nulla. E Giuseppe Iovine se ne vantava spesso, con i parenti e non solo. «Io sono il fratello del boss, chi volete che rifiuti un favore al fratello del «ninno»?». E così aveva ottenuto anche una sorta di incarico di guardiania da una società della zona che si occupa di incassare le bollette del consumo di acqua, della Tarsu e dei diritti di occupazione dei suoli: 300 euro al mese, ogni mese. Incarico dalla natura non meglio precisata (una tangente?) sul quale è in corso un supplemento d’inchiesta. Un privilegio, quello del cognome pesante, che Peppe Iovine ricambiava con piccoli favori. Per esempio, scarrozzando la suocera del fratello sull’auto di servizio, quella con le insegne della polizia municipale. O chiudendo, lui e i colleghi, tutti e due gli occhi quando incrociava il nipote, all’epoca ancora minorenne, alla guida di un’auto. Fino a sette mesi fa, quando – alla vigilia della nomina della commissione d’accesso al Comune, già sciolto in passato per infiltrazioni camorristiche – aveva cambiato ufficio. Una precauzione che doveva servire ad allontanare lo spettro del nuovo commissariamento antimafia. Da febbraio Giuseppe Iovine era all’ufficio tecnico, a occuparsi di pratiche urbanistiche. Settore, ricordano gli investigatori, che non gli era affatto sconosciuto. Quando ancora indossava la divisa, si era occupato appunto di abusivismo. E negli atti dell’inchiesta ci sono alcuni fascicoli che avrebbero avuto un’aggiustatina proprio da lui. Aggiustatine pagate, ovviamente, e tangenti incassate dagli stessi colleghi. Aggiustatine imposte, qualche volta, dopo un controllo preventivo sui cantieri appena aperti e passibili, volendo, di sequestro. Cose note, di cui si vociferava da tempo e che si credeva finite con il trasferimento (tardivo) di Giuseppe Iovine. Era appena sette mesi fa e allora nessuno sapeva ancora quanto radicato e diffuso fosse il sistema di corruzione e di intimidazione.

Il Mattino (ROSARIA CAPACCHIONE)

Martinelli: interverrò subito sulla legalità non accetto lezioni

Enrico Martinelli«I fatti contestati nel decreto di perquisizione risalgono al periodo compreso fra settembre 2004 e febbraio 2005 ma Iovine faceva il vigile urbano già dal 1995 quando qui governava il centrosinistra. Sono stato io, però, a rimuoverlo. Sulla legalità sono stato io l’unico sindaco a firmare un protocollo». Enrico Martinelli (foto), di centrodestra, difende il suo operato. Sindaco, lei quando è stato eletto? «A giugno del 2004. E mi sono subito adoperato per dare all’amministrazione trasparenza e correttezza». E cosa ha fatto? «A giugno del 2005 ho trasferito per esigenze d’ufficio la sede del comando di Polizia municipale da via Serao, una zona periferica, a via Roma, a più stretto contatto con me». Ma Iovine era sempre lì… «A ottobre 2006 ho indetto una riunione fra i dirigenti del comune rappresentando la necessità di allontanare sospetti dal corpo dei vigili urbani. E a gennaio 2007 ho trasferito Iovine all’Utc: si occupa di stadio e cimitero». Gli inquirenti parlano però di uso di auto di servizio e droga negli uffici. Mai visto nulla? «Non mi risulta alcuna subalternità a Iovine. Poi si tratta di indiziati, vorrei ricordarlo». Ma il capo della polizia municipale? «Valuterò gli atti e poi adotterò provvedimenti drastici. Nessun amministratore è coinvolto in questa inchiesta, io sono sereno». Nei mesi scorsi presso il Municipio si è insediata una commissione d’accesso… «Sì, ma a maggio ha concluso il suo lavoro. E non ci sono state proroghe. Abbiamo utilizzato beni confiscati che non erano mai stati realmente ceduti dalle famiglie malavitose, come Spierto e Salzillo. Fra dieci giorni apriamo anche una scuola in una casa confiscata».

Il Mattino (LORENZO CALÒ)

Da Casal di Principe a Mondragone agenti municipali «cari» alle cosche

Mario De Falco faceva il vigile urbano a Casal di Principe. Era stato assunto nei tempi d’oro, quando le pubbliche amministrazioni erano così permeabili alle infiltrazioni di camorra da non fare neppure rumore la presenza del fratello di un boss tra le divise comunali. E Mario De Falco non apparteneva a una famiglia qualunque. Il fratello Enzo, ammazzato nel 1991, era stato uno degli uomini più fidati di Antonio Bardellino e poi lui stesso un capo. L’altro fratello, Nunzio, mandante dell’omicidio di don Peppe Diana e condannato all’ergastolo, era un pezzo grosso già alla fine degli anni Settanta. E lui continuava a fare il vigile, indossando la divisa fino al primo scioglimento antimafia del Comune di Casal di Principe, quando poi cambiò ufficio. Fu condannato tempo dopo, in uno degli stralci del processo Spartacus: i pentiti avevano riferito che spesso aveva messo a disposizione l’auto di servizio per accompagnare a destinazione i fratelli e i loro uomini. Chi avrebbe mai fermato un’auto della polizia municipale? Chi avrebbe mai controllato i passeggeri? Mattia Sorrentino, sottufficiale dei vigili a Mondragone, faceva molto di più. Accanto al ruolo di vigilanza (dei summit degli affiliati al clan La Torre), svolgeva anche quello di esattore. Era lui a ritirare i soldi dagli ambulanti che vendevano al mercato della domenica: cinquecentomila lire a commerciante (somme del 2000) per concedere l’autorizzazione; altrimenti, permesso negato. Lo denunciò Federico Del Prete, sindacalista e ambulante lui stesso, che raccolse le lamentele dei colleghi e le registrò, consegnando poi i nastri alla Squadra mobile. La camorra mondragonese tentò di far ritrattare quelle accuse, chiedendo il favore al capozona dei Casalesi sul litorale. I commercianti fecero un passo indietro negando l’innegabile, Del Prete fu irremovibile. E fu ammazzato alla vigilia del processo, il 18 febbraio del 2002. Un omicidio inutile: Mattia Sorrentino è stato condannato.

Il Mattino (ROSARIA CAPACCHIONE)

Indagati questi i nomi

Ecco i nomi degli indagati nell’inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli: Pasquale Martino, comandante della Polizia municipale; Giuseppe Iovine, Nicola Caterino, Dante Di Bello, Nicola Novello, Nicola Pecchia, Ettore Serao, Nicola Fedele (factotum di Iovine, che risponde anche di porto e detenzione illegali di armi). I reati contestati, peculato e concussione, sono aggravati dall’articolo 7 della legge antimafia.

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